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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2011 alle ore 08:05.
L'ultima modifica è del 20 aprile 2011 alle ore 06:45.

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Politica energetica cercasi disperatamente, e molto disordinatamente. Fino a ieri il nucleare era una meta sicura, in nome di un mea culpa politico ma anche tecnologico da tributare ad un referendum (quello del 1987) sciagurato.

Oggi è una meta da abbandonare o quantomeno sospendere per scelta di Governo, in nome di un sentimento popolare nato con Fukushima esattamente com'era nato allora, con Chernobyl. Opportunismi forse comprensibili, prudenze politiche che ben si spiegano con una nuova consultazione elettorale alle porte, e non solo con i più che doverosi interrogativi su un disastro nato in un Paese citato dai nostri paladini del nucleare come un esempio quasi universale di sicurezza nell'uso dell'atomo.

Dibattito scientifico? Rigore programmatico? Siamo in Italia signori. Il Paese della politica energetica che, semplicemente, non c'è. Lo dimostrano, un po' paradossalmente, proprio i due accadimenti maturati insieme, forse casualmente, proprio ieri: la cancellazione delle (peraltro zoppicanti) norme che dovevano spianare la strada al nuovo nucleare italiano, la bozza (pare definitiva) del decreto che ridisegna i nostri super-sussidi alle energie rinnovabili cercando di calibrarne la spesa a carico di tutti gli italiani con l'indubbia esigenza di dare ossigeno ad un settore che rappresenterà gran parte del nostro futuro energetico, industriale, tecnologico.
Lo stop al nucleare arriva sull'onda delle emozioni, del sentimento popolare di cittadini che aggiungono comprensibili timori allo sconcerto di una politica energetica che, semplicemente, non c'è. Un fantasma che ha attraversato le ultime legislature (di destra, ma anche di sinistra) senza saper trasmettere né una rotta precisa né un obiettivo realmente comprensibile, né un quadro di regole coerenti né opzioni chiare.

Sì ai nuovi gasdotti e ai rigassificatori, ma no a vere corsie preferenziali per le autorizzazioni. Senza il coraggio (è solo un esempio) di cogliere la formidabile opportunità di regalare al nostro magnifico stivale un profittevole hub metanifero per l'intero continente. Sì alle rinnovabili, ma con elargizioni a pioggia senza alcun discrimine né tecnologico né legato a una corretta pianificazione territoriale che potesse evitare il fiorire, questo sì, della speculazione finanziaria piuttosto che dell'investimento sulla creazione di una vera filiera industrale nazionale (la Germania insegna, da tempo). Solo ora si tenta (qualche segnale c'è) di correre ai ripari.

Sì al "rinascimento" nucleare, ma con il sistematico mancato rispetto sia della tempistica che delle priorità promesse. Due anni di ritardo per la nascita dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, che ad oggi è ancora senza una sede. Neanche l'ombra di una soluzione (e neanche un orientamento) per risolvere il problema delle scorie atomiche, non solo quelle che vorremmo produrre dal "rinascimento", ma perfino quelle vecchie che vagano nei siti delle nostre centrali chiuse 25 anni fa (lì ben piazzate e non ancora smantellate).

E che dire dei due mega-piani che da anni vagano nelle intenzioni senza prendere alcuna forma. Ecco, evanescente, il piano nucleare nazionale che doveva tracciare un percorso operativo coerente per la costruzione delle nostre nuove centrali. Ed ecco la "madre" della riscossa: il nuovo Piano energetico nazionale, che indicasse una strategia coerente nel mix tra atomo, energie verdi, efficienza energetica, ammodernamento delle reti e relative misure di politica economica e industriale. «Arriverà con una conferenza nazionale entro fine anno» promettono quest'anno (come l'anno scorso, quello prima, quello prima ancora) i nostri governanti. Che con un pizzico di doveroso realismo ammettono, loro per primi, la grande falla. Non basta.

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