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Questo articolo è stato pubblicato il 21 aprile 2011 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 21 aprile 2011 alle ore 06:40.

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Dopo il milanese Lassini, il marchigiano Remigio Ceroni. Dopo il candidato berlusconiano che ha provocato un incidente con il Quirinale e un enorme imbarazzo a Letizia Moratti, ecco il deputato «ultra» che vuole riformulare il primo articolo della Costituzione per sancire che la maggioranza parlamentare può fare quello che vuole, al di sopra di qualsiasi equilibrio istituzionale.

In parole povere, un attacco brutale al ruolo di Napolitano e la consacrazione plebiscitaria del leader eletto.
Sembra che nella confusione imperante sia venuto il tempo delle seconde o terze file. Di Lassini e di Ceroni pochi avevano sentito parlare finora. D'improvviso si sono conquistati le prime pagine dei giornali dando corpo a un malessere, o meglio a un risentimento oscuro presente in alcuni circoli del Pdl. Sono zelanti interpreti dei desideri più o meno segreti del premier, personaggio che conoscono appena e di sicuro non frequentano, ma di cui si sentono gli autentici difensori.
S'intende che la proposta di Ceroni non ha alcuna probabilità di prendere forma in Parlamento. Così come i manifesti di Lassini si sono risolti in un inevitabile autogol. Tuttavia entrambi i passaggi sono rivelatori. Specie il secondo, se non altro perché ha come sfondo la Camera. In condizione normali a nessun singolo parlamentare della maggioranza verrebbe in mente di ribaltare la Costituzione. O almeno di proporlo. Ma oggi vige una sorta di anarchia in cui ognuno fa corsa a sé. Più il leader si sente accerchiato e assediato (vedi l'articolo di Ugo Magri sulla «Stampa» di ieri), più c'è qualcuno che, dimentico di ogni residua prudenza, si sporge ad attaccare i due bersagli principali: il Quirinale e la magistratura.

In termini pratici la questione finisce qui: nel senso che i due carneadi godono dei canonici cinque minuti di popolarità per poi tornare nella penombra. Ma in termini politico-istituzionali Lassini e Ceroni lasciano intendere con le loro iniziative che il livello di frustrazione nel centrodestra ha superato da un pezzo la soglia di sicurezza. E che, assente ogni autentica mediazione, lo spazio è tutto dei falchi e poi dei super-falchi.
È plausibile che questa tensione sotterranea ma vibrante fra il capo del governo e il presidente della Repubblica possa andare avanti all'infinito senza uno sbocco? Ovvero senza un definitivo chiarimento, in un caso, o uno scontro risolutivo, nell'altro? Ed è credibile che il braccio di ferro con la magistratura possa proseguire ancora due anni, scandito da colpi quotidiani nello sconcerto generale?

L'esperienza insegna che quando i circuiti politici si ostruiscono, prima o poi qualche evento improvviso, qualche «cigno nero», interviene per riaprire i condotti. Qualcuno guarda alle amministrative di Milano come al possibile detonatore di equilibri instabili. Altri osservano i malumori dei «Responsabili», sempre in attesa del fatidico «rimpasto» di governo. Vedremo. Di certo merita la massima attenzione la cautela di Umberto Bossi. Il leader della Lega teme che camminando nella nebbia si finisca per mettere un piede in fallo. Vorrebbe un Berlusconi diverso, ma non può dirlo. Pensa che l'ossessione per la magistratura sia molto dannosa. E non a caso ha scelto di tenersi vicino al Quirinale. Tra l'avventura e l'equilibrio delle istituzioni, il vecchio federalista non ha dubbi. Anche perché le elezioni politiche il centrodestra non può subirle. Semmai gestirle.

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