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Questo articolo è stato pubblicato il 27 aprile 2011 alle ore 08:58.

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A Bengasi nasce la «Banca centrale» dei ribelliA Bengasi nasce la «Banca centrale» dei ribelli

In attesa che i bombardamenti e le pressioni diplomatiche chiudano la partita con il Colonnello, i ribelli di Bengasi cercano di apparire sempre meno tali e gettano le basi per il nuovo Stato libico depurato dal Gheddafi e i suoi. La nuova nomenclatura – che proviene quasi tutta dalla vecchia - sta creando strutture pronte ad attivarsi non appena l'embargo sarà tolto o comunque allentato.

È il caso della nascita della nuova Banca Centrale, che mira a raccogliere l'eredità della Central Bank of Libia, cuore del potere finanziario del Raìs insieme al fondo sovrano Lia, alla Lafico e alla Lybian arab foreign bank. Per ora è stato solo uno spin-off realizzato non con avvocati e banche d'affari, ma con armi in braccio e mortai in strada. Semplicemente il Consiglio nazionale di Transizione e il governo provvisorio lo scorso 19 marzo hanno costituito la Banca centrale di Bengasi, che deve «agire come autorità monetaria competente in politiche monetarie in Libia». Alla guida è stato insediato Ali El Sharif come governatore. Lo stesso giorno è stata creata la Libyan Oil Company, «autorità di controllo sulla produzione e sulle politiche del petrolio», guidata dal responsabile delle finanze Ali Tarthuni, che ha delegato gran parte dell'operatività ad Abdullah Sharmia. Tutti nomi ancora poco noti, ma che le grandi banche e le compagnie petrolifere occidentali stanno iniziando a conoscere.

La prima tra le istituzioni finanziarie europee che si mossa è stato il colosso bancario globale inglese Hsbc: un team della banca da qualche giorno è nella capitale della Cirenaica per allacciare i rapporti con la nuova entità monetaria, che prima o dopo raccoglierà l'eredità della Central bank e della Lia, di cui peraltro Hsbc è banca depositaria ("custodian bank") di buona parte degli asset congelati. La posta in gioco è enorme: in giro per il mondo ci sono almeno 120 miliardi di dollari di beni sottoposti al freeze deciso dall'Onu, tra beni considerati personali del Colonnello e quelli delle istituzioni libiche.

In Italia la stima è di circa 7 miliardi, tra cui rientrano le partecipazioni in Unicredit (7,5% custodito a Lussemburgo), Finmeccanica (2%), Eni, Juventus e Ubae. Da tempo l'Italia sta spingendo per il parziale scongelamento dei fondi libici, in atto dall'8 marzo dopo che l'Onu aveva approvato le sanzioni il 27 febbraio: l'obiettivo è convogliare verso il Cnt e il governo provvisorio. Se ne parlerà a Roma il 5 maggio nella riunione del gruppo di contatto: se ci sarà accordo politico a quel punto dovrà essere messo a punto uno strumento giuridico che consenta lo scongelamento senza incorrere in futuri problemi di contenzioso internazionale, visto che al momento le istituzioni "titolari" delle azioni e dei depositi sono ancora ufficialmente operative a Tripoli, quindi ancora sotto Gheddafi. La Lia, ad esempio, tiene aperti alcuni canali finanziari che scappano alle maglie dell'embargo, come con l'India, la cui collaborazione è giudicata poco coscienziosa: ogni mattina negli uffici a El Fathe Tower si presentano tre dirigenti e spesso anche il ceo, Mohamed Layas, rimasto al suo posto al contrario dell'ex governatore della Banca Centrale, Farhat Bengdara, da tempo scappato a Istanbul, ma ancora ufficialmente vice presidente di Unicredit.

Lo scongelamento è il tema sul tavolo dei governi occidentali per dare la spallata al regime del Colonnello: una misura che specie in Italia potrebbe avere ripercussioni non secondarie su Piazza Affari, specie se nell'elenco dei beni rientrassero le partecipazioni azionarie che il Cnt una volta con le mani libere potrebbe decidere di vendere. In ogni caso le aziende italiane più interessate ai rapporti con i ribelli hanno già incontrato nei giorni scorsi il presidente Mustafa Jalil a Roma, e tra queste Unicredit, che ha in Libia la licenza a operare, unica banca straniera che su questo fronte aveva battuto proprio Hsbc in forza dello stretto rapporto instaurato dal 2008. Nel frattempo la nuova Banca deve cercare di riattivare una parvenza di normalità economica nelle aree pacificate, dove operano circa 200 sportelli bancari che fanno capo ai quattro principali istituti del paese. Normalità che passa prima di tutto dall'esportazione di petrolio e gas, altro tema che sarà affrontato in sede di gruppo di contatto: per il momento il canale avviato è con il Qatar, dove fanno riferimento anche i banchieri per le operazioni di compensazione "estero su estero".

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