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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2011 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 30 aprile 2011 alle ore 08:10.

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Gli illeciti sulla finanza derivata? Se dimostrati, sarebbero solo l'ennesima prova del fallimento dell'approccio basato sulla sola capacità dei mercati finanziari di autoregolamentarsi. Una teoria che negli ultimi due decenni ha fortemente influenzato operatori, regolatori e politici, soprattutto – ma non solo – anglossassoni.

Un approccio miope, i cui danni collettivi sono divenuti progressivamente più evidenti. Ma forse non abbastanza, visto che la risposta regolamentare sia negli Stati Uniti che in Europa è stata finora debole e contraddittoria.
Il fatto che la Commissione europea abbia avviato un'indagine sulla violazione di norme e principi della concorrenza sui cosiddetti mercati derivati non può sorprendere. È stato più volte argomentato su queste pagine – e l'inchiesta di questi giorni sul Sole 24 Ore ha portato finalmente sul proscenio il tema – che gli scambi mondiali di derivati non possono essere definiti un mercato. All'indomani della crisi finanziaria nessuno ha potuto negare che lo sviluppo incontrollato degli strumenti derivati sia stato uno dei catalizzatori. Gli scambi mondiali sui derivati sono l'esempio emblematico dei danni che la finanza può arrecare all'economia quando le regole sono insufficienti. Lo strumento derivato è una attività che ti consente di coprire o di assumere un rischio. Se l'utilizzo di tale strumento assume due caratteristiche – si diffonde esponenzialmente e si intreccia profondamente con l'attività di altri intermediari e mercati, soprattutto bancari – può diventare un veicolo di assunzione eccessiva del rischio. Come è avvenuto, e come può continuare ad avvenire.

Ora: fino a quando gli effetti di un eccesso di rischio si ripercuotono sulle imprese o sugli intermediari che tale strumento hanno attivato, la faccenda non interessa a livello macroeconomico.
Se invece l'eccesso di rischio si ripercuote, amplificando i danni, su altri soggetti, finanziari e non, producendo instabilità finanziaria, occorre intervenire. Siamo di fronte a una situazione di cosiddetta esternalità negativa: alcune azioni provocano danni a terzi, senza che tale eventualità sia incorporata nei costi che affronta chi compie tale azione. Dunque occorrono regole che aumentino l'internalizzazione dei costi a carico di chi dai derivati trae beneficio.
Per avere regole efficaci due sono le parole chiave: standardizzazione dei contratti e centralizzazione degli scambi. Il binomio standardizzazione-centralizzazione riduce i rischi e aumenta la trasparenza, a vantaggio della collettività. I suoi costi sono pagati da chi quei contratti li utilizza o li commercia; ma questo è equo ed efficiente, visto il rischio di esternalità che tali contratti hanno. E se esistono rischi e/o controparti particolarmente esotici e/o complessi? Emigreranno verso regolamentazioni a più alto rischio. Chi vuol tutelare davvero la stabilità deve sapere che non è un pasto gratis.

Il problema è che gli intermediari bancari specializzati in derivati possono essere una lobby molto efficace, direttamente o indirettamente, soprattutto se sono un oligopolio. Una prova lampante della loro efficacia è stata la (non) regolamentazione dei derivati promulgata negli Stati Uniti, seguita a ruota dalla (non) regolamentazione europea.
La legge americana Dodd-Frank non ha introdotto finora alcuna novità sostanziale, limitandosi a sancire due principi, uno scontato - occorre regolamentare i derivati - e uno invece assai tossico: occorre escludere dalla regolamentazione i derivati non utilizzati a fini speculativi. È evidente che il principio dell'eccezione è il classico grimaldello che può vanificare gli obiettivi di una legge, se ben utilizzato. Nel nostro caso può eludere il principio della standardizzazione-centralizzazione.

Però il grimaldello può essere efficacemente nascosto dal principio di autoregolamentazione dei mercati. Diremmo un classico degli anni 90, che può essere riassunto nel principio: condizione necessaria e sufficiente per avere delle regole efficaci è che le norme siano gradite dai partecipanti al mercato. Un approccio radicale, rispetto a una visione più equilibrata in cui tra efficacia ed efficienza vi è un rapporto di complementarietà, non di subordinazione.
La regolamentazione "amica del mercato" deve essere profondamente ripensata. Proviamo a guardare i dati. Alla vigilia della crisi, il "mantra" era uno e uno solo: più la regolamentazione è amica del mercato, più produzione e reddito sono alti. Ma la crisi ha mostrato che, oltre ai pregi, le regole amiche del mercato hanno un grave difetto: provocano instabilità. Paese per paese, la crisi finanziaria ed economica è stata tanto più forte quanto maggiore erano diffuse regole amiche del mercato.
Occorre allora cercare un nuovo equilibrio: capire sotto quali condizioni, mercato per mercato si possono disegnare regole che coniughino al meglio l'efficacia pubblica con l'efficienza privata. L'autoregolamentazione è uno di quei mantra che rende felici (e ricchi) i santoni che la predicano e la praticano, e gabbati tutti gli altri.

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