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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2011 alle ore 10:25.

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Si può definirlo uno scrupolo istituzionale, dietro il quale si coglie la preoccupazione per il lento sfilacciarsi della cornice in cui si svolge il dibattito pubblico. Il passo del Quirinale fa capire come Giorgio Napolitano abbia visto con un certo fastidio la nomina di un plotoncino di nuovi sottosegretari: i protagonisti del "piccolo ribaltone" che ha salvato il governo il 14 dicembre (qualcuno è approdato ai "Responsabili" anche dopo). L'ipotesi, adombrata da Berlusconi, circa un provvedimento "ad hoc" per creare un'altra decina di poltrone non ha migliorato le cose.

Allora la richiesta di verificare in Parlamento il mutamento della maggioranza (sottinteso: anche con un voto di fiducia) non è un semplice puntiglio. Né vale replicare che il governo ha già ottenuto molti voti a suo favore. In questo caso c'è un'esigenza, potremmo dire, d'igiene istituzionale. La democrazia parlamentare esige il rispetto di certe regole. E in questo caso, se la maggioranza cambia perché si è verificata una scissione nel Pdl, con l'uscita di Fini e l'arrivo alla spicciolata di un certo numero di eletti con l'opposizione, è bene che il Parlamento si esprima. O almeno ne prenda nota.

In fondo il gruppo dei "Responsabili" non è un vero e proprio partito, ma è il collettore dei transfughi. Nel momento in cui esprime un numero consistente di nuovi esponenti dell'esecutivo, diventa a tutti gli effetti un soggetto politico. In queste situazioni ognuno matura il giudizio morale e politico che preferisce. Ciò che davvero conta – e qui è la vera moralità della politica – è il rispetto delle norme istituzionali. Se il "piccolo ribaltone" ha dato luogo a una diversa maggioranza, è bene che il presidente del Consiglio ne informi il Parlamento. E che quest'ultimo gli rinnovi la fiducia con un atto formale. Le operazioni trasformistiche sono ammesse, quello che appare un po' grottesco è che si difenda un principio in cui nessuno crede. Il principio secondo il quale, in nome di un'astratta "Costituzione reale", il premier sarebbe eletto direttamente dal popolo. E quindi al popolo ha il diritto di tornare se qualcuno incrina la sua maggioranza scaturita dalle urne.

I fatti dimostrano che non è così. Quando, ferito dalla scissione di Fini, Berlusconi si è trovato con una maggioranza troppo esigua per andare avanti, avrebbe dovuto chiedere al presidente della Repubblica di indire le elezioni anticipate. Questo in base al principio sopra citato. Viceversa è cominciata la complessa campagna per acquisire nuovi voti, sottraendo all'opposizione un certo numero di parlamentari. Nella prima Repubblica era abbastanza normale. Ma allora non esisteva la retorica del bipolarismo o il mito dell'elezione diretta. Sta di fatto che, nel momento in cui ha scelto la via delle manovre parlamentari, Berlusconi ha implicitamente rinunciato all'idea di contrapporre la "legittimità popolare" alla dinamica parlamentare prevista dalla Costituzione in vigore.

Certo, sul piano politico il presidente del Consiglio non ha nulla da temere da questa verifica. Che ci sarà solo se qualche gruppo chiederà di dar seguito all'invito del Quirinale. I numeri del governo sono abbastanza solidi, nonostante i malumori di coloro che hanno visto svanire (per ora) il sogno di una poltrona da sottosegretario. Ma un conto è la forza dei numeri, un altro è la tentazione di scavalcare gli equilibri istituzionali. Con il suo passo di ieri Napolitano ha confermato di non voler rinunciare al suo ruolo di garante. Potremmo aggiungere: di punto di riferimento generale in questa fase confusa e poco trasparente.

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