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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2011 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 10 maggio 2011 alle ore 08:53.

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Nella liturgia laica della Repubblica onorare le vittime del terrorismo, e tra esse i dieci magistrati che hanno pagato con la vita il loro servizio alle istituzioni, rappresenta un tipico momento di unità nazionale. Riporta idealmente agli anni Settanta, a quei momenti tremendi e dolorosi in cui la coesione prevalse sulle divisioni. Con eccezioni anche rilevanti, s'intende. E tuttavia non è un caso se nella memoria storica gli «anni di piombo» sono ancora oggi sinonimo di unità contro l'eversione e in difesa dei valori repubblicani.

A quel clima e a quel mondo di ieri si è ispirato Giorgio Napolitano. Del resto il capo dello Stato non ha mancato di sottolineare che ieri era il 9 maggio, trentatreesimo anniversario dell'uccisione di Aldo Moro. Questa ricerca insistita e persino commossa di elementi di unità, di momenti in cui il paese riesca a riconoscersi in una storia condivisa, rappresenta con ogni evidenza un messaggio che va in direzione opposta rispetto a uno scontro politico-istituzionale sempre più lacerante.

Sotto questo aspetto le parole di Napolitano non si riducono a un'esortazione e nemmeno a un vago rimbrotto, come crede Di Pietro. Piuttosto esse confermano il dinamismo davvero fuori dal comune di cui sta dando prova il presidente della Repubblica nelle ultime settimane, con interventi su tutti i temi. E fotografano un dissidio profondo e grave al vertice delle istituzioni.

Un dissidio che sta forse superando la soglia di guardia, perché l'anomalia è sotto gli occhi di tutti: al conflitto fisiologico maggioranza/opposizione si è via via sostituita la guerra asimmetrica tra governo e magistratura. E ci sono pochi dubbi che Berlusconi ha agito nel tempo per consegnare un ampio segmento dell'ordine giudiziario al ruolo di «oppositore politico». Era nel suo interesse questa radicalizzazione, così come è vero che qualche magistrato ha accettato di buon grado il ruolo di «supplente» di un'opposizione a suo avviso troppo timida.

Il risultato sono le sabbie mobili in cui sta naufragando il dibattito pubblico. È ovvio che in questa atmosfera non avremo alcuna riforma della giustizia. Una delle frasi del capo dello Stato è significativa al riguardo: «Rendere onore alla magistratura è la premessa della riforma». Come dire: prima va ricostruita una forma di concordia istituzionale, poi si procede a legiferare senza strappi. È stato ripetuto in varie occasioni: guai a delegittimare la magistratura. È un gioco troppo pericoloso.

Viceversa, complice anche l'atmosfera elettorale, il braccio di ferro non conosce tregua. Certo, ieri il presidente del Consiglio era a Milano, nell'aula del processo Mills. E in serata dichiarava di unirsi alle «nobili parole» dedicate da Napolitano alle vittime del terrorismo: riconoscendo che tra i magistrati si contano degli «eroi». Ma in precedenza Berlusconi aveva ribadito la proposta di una commissione d'inchiesta sull'attività delle procure. Il che non rappresenta una novità, perché il Pdl ne parla da anni. Tuttavia, metterla sul tavolo oggi, mentre lo stesso premier definisce «un cancro» certi pm e una sua stretta collaboratrice grida che la Boccassini è «una metastasi», comporta delle conseguenze.

In sostanza, la strana guerra civile continua. Logorando le istituzioni senza avvicinare di un passo le riforme necessarie. Anzi, offrendo un alibi a tutti i conservatori. Vedremo nei prossimi giorni, con gli occhi in particolare al voto di Milano.
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