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Questo articolo è stato pubblicato il 13 maggio 2011 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 13 maggio 2011 alle ore 06:35.
L'ormai virtualmente certa designazione di Mario Draghi alla presidenza della Bce è una di quelle rarissime occasioni in cui nell'Unione europea prevale il principio del merito sulle logiche spartitorie dell'«ora tocca a noi» o del «questo posto è nostro».
Tanto più rara in questo caso in quanto non solo il prescelto non viene dal Paese «giusto» (che in questo caso sarebbe stata la Germania), ma anzi viene da un Paese che agli occhi di moltissimi europei è particolarmente inadatto a produrre un banchiere centrale affidabile. È per questo che il cancelliere Angela Merkel ci ha tenuti in sospeso così a lungo prima di decidersi a dare il suo assenso.
Ed è per lo stesso motivo che per molte settimane la stampa europea (finanziaria e non) si è impegnata in un'affannosa campagna di rassicurazione dell'opinione pubblica, volta a convincere i lettori che Draghi può fare il presidente della Bce anche se è italiano. Quest'opera di rassicurazione ha diversi livelli.
In superficie c'è ovviamente la questione del passato inflazionistico di Roma pre-euro, che molti attribuiscono a una sorta di congenita mancanza di disciplina degli italiani in materia di gestione della moneta, del credito e della finanza pubblica (non aiuta ovviamente il fatto che il nostro Paese abbia uno dei più alti debiti pubblici del mondo, in rapporto al Pil). Per apprezzare l'importanza di questo handicap per Draghi basta ricordare che, ai tempi del dibattitto tedesco sull'euro, uno degli slogan più efficaci degli oppositori faceva leva proprio sul timore che un italiano finisse per dettare la politica monetaria. Per calmare le ansietà su questo punto la stampa europea accentua la biografia professionale di Draghi, e fa notare come in tutti i suoi incarichi pubblici, nazionali e internazionali, egli abbia dimostrato chiaramente di essere nemico dell'inflazione e della finanza pubblica allegra.
Un secondo livello di rassicurazione, più sottile e meno esplicito, concerne i comportamenti e la personalità di Draghi.
Si sprecano i riferimenti alla sua serietà, al fatto che è capace di parlare con pacatezza e in toni misurati, di comportarsi con dignità e gusto, quasi che da un personaggio pubblico italiano sia ormai normale aspettarsi solo comportamenti giullareschi e sguaiati. È l'apparente necessità di fornire questo più sottile tipo di rassicurazione che paradossalmente può trasformare la nomina di Draghi, da potenziale causa di legittimo orgoglio per l'Italia, in ennesima umiliazione, soprattutto per gli italiani che vivono all'estero.
La rilevanza della nazionalità di Draghi non si affievolirà dopo la sua nomina, anzi è presumibile che aumenterà, perché Draghi dovrà tener conto delle ansietà di cui sopra nella sua guida della politica monetaria europea. In un altro paradosso, dovrà essere più tedesco dei tedeschi per dimostrare la sua assoluta avversione all'inflazione. La necessità di stabilire che l'avvento dell'euro non costituisce una diluizione della tradizione severamente anti-inflazionistica della Bundesbank ha sempre condizionato la Bce, e spiega perché quest'ultima si è sempre dimostrata più «falco» delle altre maggiori banche centrali del mondo. Con un italiano alla guida questa spinta si accentuerà.
Un altro motivo per cui Draghi, almeno nei primi tempi, sarà spinto ad accentuare le sue credenziali anti-inflazionistiche è che l'area euro è in una di quelle congiunture, tanto temute da coloro che si opposero all'euro, in cui diversi Paesi avrebbero bisogno di politiche monetarie diverse. Germania e satelliti crescono a ritmo rapido e temono il surriscaldamento, una situazione che giustifica un rialzo dei tassi d'interesse. Gli Stati periferici, compreso quello di Draghi, sono in recessione e, alcuni, sono anche alle prese con una crisi debitoria. Una politica monetaria restrittiva è l'ultima cosa di cui hanno bisogno. Questo conflitto d'interessi porrà ulteriore pressione su Draghi, che sarà costretto a cercare in tutti i modi di evitare ogni sospetto di parzialità a favore del Sud Europa.
Draghi eredita la guida della politica monetaria europea nel momento più difficile affrontato finora dalla Bce. Forse mai come oggi nella breve storia dell'unione monetaria, c'è stata tanta eterogeneità nelle condizioni cicliche dei diversi Paesi. A questo si aggiunge la crisi debitoria delle economie periferiche, che costituisce una minaccia quasi esistenziale alla reputazione della Bce come garante della stabilità del sistema finanziario. Non è una coincidenza che proprio in un momento tanto delicato si sia deciso di scegliere il migliore fra i possibili candidati, invece di quello indicato dalle logiche di spartizione. Nessun presidente della Bce può permettersi di sbagliare, ma un presidente italiano lo può fare meno di tutti.
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