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Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2011 alle ore 16:22.

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Roberto Maroni, ministro del Carroccio, si affretta a gettare acqua sul fuoco. «Non c'è alcun ultimatum di Bossi a Berlusconi, non mi risulta che la Lega sia pronta a staccare la spina se si perde a Milano». Sia come sia, i rapporti tra Arcore e via Bellerio non sono mai stati così freddi come nelle ultime ore. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi si guardano bene dall'incontrarsi per il momento, e chissà ancora per quanto, fatta salva una breve telefonata alquanto gelida subito dopo la certezza della débâcle.

Lo scontro sulla Libia e la minaccia del Carroccio
Insomma, le lancette dell'orologio sembrano essere tornate indietro a qualche settimana fa quando, sulla crisi in Libia e sulla scelta dell'Italia di aderire ai raid mirati contro il colonnello Gheddafi, si registrò il pericolosissimo strappo del Carroccio. Che arrivò a minacciare una crisi di governo in assenza di risposte convincenti alle richieste messe nero su bianco sulla mozione leghista poi approvata dalla Camera. Chiari segnali di appannamento di un rapporto che, mai come in questa legislatura, sta conoscendo più bassi che alti.

L'ultimatum sul federalismo
Anche perché di ultimatum, al netto delle ultime fibrillazioni, il Senatur ne ha lanciati parecchi verso l'altra sponda, pronto sempre a marcare la distanza sui temi più cari al Carroccio. Così è stato per esempio sul federalismo, da sempre cavallo di battaglia di Bossi e i suoi, su cui, non a caso, a gennaio si è consumato un pesantissimo strappo. Con il Senatur che ha posto come condizione per far proseguire la legislatura ed evitare il voto anticipato il via libera ai decreti attuativi della riforma. Giornate di contatti continui tra il Pdl e il Carroccio che hanno fatto emergere l'improvvisa fragilità di un asse indebolito soprattutto dalle vicende personali del premier (su tutti il caso Ruby che è piaciuto poco dalle parti della Lega), ma anche dalle metamorfosi della maggioranza con l'uscita di scena di Fini.

L'offerta di Fini e la tentazione dello strappo
Proprio il presidente della Camera è stato, al tempo stesso, facilitatore e disturbatore nei rapporti tra il Cavaliere e il Senatur. Subito dopo il congresso del Pdl che sancì il divorzio tra Berlusconi e Fini, Bossi ha fatto buon viso a cattivo gioco. Accantonando, a un certo punto - erano i primi giorni di novembre - anche la strada della crisi pilotata ventilata dal ribelle Fini come possibile contropartita in cambio del sì al federalismo. Bossi, pur tentato dall'offerta, ha deciso però di confermare la sua fiducia al Cavaliere e, posto davanti a un bivio, ha scelto di rendere ancora più forte nel bel mezzo della burrasca il patto con il Pdl. Proprio come aveva fatto qualche mese prima davanti al corteggiamento serrato del Pd e dello stesso leader di Fli.

Tra le due sponde un rapporto di necessità
Berlusconi prima di tutto, insomma. Perché, come ha ripetuto il Senatur anche nei giorni scorsi, «con Silvio abbiamo i voti per cambiare lo Stato e fare le riforme. Chi ci dà i voti ha la nostra stima». Eccola qui tutta l'essenza del rapporto di necessità tra il Cavaliere e Bossi. Perché di questo si tratta anche se Berlusconi si fregia di avere con il Senatur un rapporto speciale, una grande amicizia che però attraversa fasi alterne e, sempre più spesso, momenti di difficoltà, come ha ammesso ieri lo stesso premier. Certo sono ormai lontani i tempi del ribaltone quando Bossi assestò al primo governo Berlusconi il colpo del ko grazie all'accordo con il Pds di Massimo D'Alema e il Ppi di Rocco Buttiglione. Come pure sono lontani i giorni in cui la Padania pubblicava (era l'agosto 1998) una prima pagina dal titolo eloquente: «Il mafioso di Arcore». Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e Bossi è diventato l'alleato migliore di Berlusconi. Ma molti, ai piani alti e nella base leghista, sono convinti che ormai sia giunto il momento di dirsi addio.

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