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Questo articolo è stato pubblicato il 07 maggio 2011 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 18 maggio 2011 alle ore 06:38.

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Continua il silenzio di Berlusconi e Bossi. È significativo perché conferma una fase di profonda frustrazione seguita al voto amministrativo. Del resto, si possono capire le difficoltà dei due grandi sconfitti, il loro timore di non compiere un altro passo falso, la necessità di riflettere e di pensare una strategia a breve, di qui a domenica 29, quando si svolgeranno i ballottaggi.

Si può capire anche la diffidenza reciproca, nella convinzione di ciascuno che il responsabile della disfatta sia l'altro. Per ora filtrano le tipiche espressioni rassicuranti che servono a farsi coraggio e a sostenere il morale dei seguaci. «A Milano possiamo farcela» lascia trapelare il premier. E Bossi affida a Calderoli un messaggio di assoluta lealtà: la Lega s'impegnerà allo spasimo in vista del secondo turno, perché nulla è perduto e, come si dice, volere è potere. A sua volta il Pdl ritira ufficialmente le accuse al Carroccio affiorate nelle prime ore successive al crollo milanese. Come garantisce il senatore Quagliariello, «non pensiamo affatto che la Lega abbia dato un contributo insufficiente».

In realtà erano anni che il rapporto fra Pdl e Lega non mostrava crepe così vistose. E si capisce. Dopo il '96, quando il partito di Bossi si presentò da solo alle elezioni vinte da Romano Prodi, la relazione con Berlusconi era stata ricostruita ed era apparsa foriera di successi. Nemmeno la sconfitta sul filo di lana del 2006 l'aveva scalfita. Quindi si possono considerare circa quindici anni in cui Berlusconi e Bossi hanno lavorato insieme e si sono spartiti fette consistenti di potere. Questo è il primo, vero momento critico dopo ben tre lustri. Ciò non significa che i due personaggi siano sul punto di rompere. Molte ragioni consigliano prudenza prima di gettare al vento l'asse di governo e fare un bel regalo all'opposizione. Altrettanti motivi consigliano di non accreditare per ora ipotesi di governi tecnici o di frettolosi ricambi a Palazzo Chigi. Tuttavia un conto è la logica astratta delle convenienze, un'altra la concreta realtà in cui si consumano le conseguenze dell'insuccesso.

E qui bisogna dire che nell'inquietudine leghista pesa non solo e non tanto il risultato di Milano, quanto l'arretramento del Carroccio in tanti piccoli e medi centri della Lombardia profonda, in quel Nord di cui Bossi si considerava il re incontrastato. Anche in questo caso, massima cautela. I ballottaggi potranno ribaltare qui e là il risultato del primo turno (ma a Milano sarà molto difficile tagliare la strada a Pisapia). Il bilancio finale si farà solo la sera del 30 maggio. Eppure il malessere leghista esiste e si allarga. Ora viene tenuto a bada, perché occorre essere, e in particolare mostrarsi, votati al bene della coalizione e alla salvezza del rapporto con il vecchio alleato. In seguito, si vedrà.

Sta di fatto che a Gallarate c'erano due candidati del centrodestra: uno del Pdl e uno della Lega. Ha vinto quello berlusconiano e andrà al ballottaggio con il candidato del Pd. Escluso l'esponente bossiano. Commento del sindaco leghista di Varese: «Se votassi a Varese, sosterrei il candidato del Pd». Piccolo episodio, ma sintomatico di un rapporto logorato e di un fastidio crescente verso la leadership di Berlusconi, tanto incombente quanto priva ormai del tradizionale tocco magico. La vittoria unisce, smussa gli angoli e lenisce qualsiasi ferita. La sconfitta divide e fa emergere i rancori. Berlusconi e Bossi sono a questo punto. Solo una vittoria potrebbe riavvicinarli, al di là dell'interesse immediato. Con una nuova sconfitta la stabilità del governo sarà a rischio.

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