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Questo articolo è stato pubblicato il 19 maggio 2011 alle ore 08:15.
L'ultima modifica è del 19 maggio 2011 alle ore 06:43.

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La dimensione complessiva del debito estero (privato e/o pubblico), la sua composizione e la sua "copertura" da parte del patrimonio privato sono sempre più riconosciute a livello internazionale e dagli analisti quali variabili cruciali della sostenibilità finanziaria di una nazione.

Lo dimostra anche l'articolo di Daniel Gros pubblicato il 12 maggio sul Sole 24 Ore, in cui si sottolinea come la ragione vera della crisi dei Paesi periferici sia la loro posizione internazionale sull'estero fortemente negativa: cioè l'esistenza di un elevato stock di debiti (privati e/o pubblici) accumulato nel tempo verso i creditori stranieri. Sono vari i fattori che possono concorrere al peggioramento di questo indicatore, tra cui il perdurare di una situazione di bilancia delle partite correnti strutturalmente passiva o una quota crescente di debito pubblico sottoscritta da investitori esteri.

Ma una posizione netta sull'estero negativa è tanto più preoccupante, oltre che se gravosa in rapporto al Pil, qualora un Paese disponga di un patrimonio finanziario privato risicato. Perché allora, in caso di crisi conclamata sul debito estero, nessuna delle opzioni illustrate da Gros per abbattere il debito stesso (tra cui, al limite, anche quella di un'imposta patrimoniale) può essere più praticata da uno Stato in difficoltà. È il caso della Grecia. Se consideriamo gli indicatori di sostenibilità dell'ultimo Financial Stability Report del Fmi, possiamo rilevare che la posizione netta sull'estero di Atene è negativa per un ammontare pari al 99% del Pil ma la ricchezza finanziaria netta delle famiglie greche è ormai precipitata al 56% del Pil. Per cui la posizione internazionale "in rosso" della Grecia equivale addirittura al 177% dello stock attuale di ricchezza privata. Lo stesso valore per l'Irlanda non è molto distante da quello greco, pari al 170%, quello della Spagna è 121% e quello del Portogallo è 84 per cento.
Viceversa, per un confronto, la posizione estera degli Usa, della Gran Bretagna e della Francia, pur negativa, è uguale in tutti questi tre Paesi solo all'8% della ricchezza privata.
Lo stesso valore per l'Italia, in base agli indicatori del Fmi, è solo lievemente superiore, pari all'11%, ma è in calo come risulta dall'ultimo dato diffuso da Banca d'Italia, secondo la quale la nostra posizione netta sull'estero alla fine del 2010 era negativa per 265 miliardi di euro (pari al 9,8% della ricchezza finanziaria netta delle famiglie e al 17,1% del Pil). In definitiva, sulla base di questi parametri è ben chiaro – come sintetizzato nella titolazione dell'articolo di Daniel Gros – «perché l'Italia non è il Portogallo».

Questi aspetti erano stati da me illustrati quantitativamente già sul Sole 24 Ore dell'8 dicembre scorso: individuando una serie di indicatori di sostenibilità la cui "quadra", per ogni Paese, è data dall'equilibrio tra stock di debiti e stock di attività finanziarie di tutti gli operatori nazionali più il contro-bilanciamento con il resto del mondo, quale si ricava dai bilanci finanziari nazionali. Alla luce degli ultimi dati del Fmi, gli unici due grandi Paesi avanzati che non hanno problemi al riguardo sono oggi la Germania e il Giappone. Entrambi, infatti, hanno una posizione netta sull'estero fortemente attiva. In più il Giappone vede finanziato il 93% del suo debito pubblico, che è gigantesco, dai giapponesi stessi. Questo spiega perché il Giappone, pur avendo un grande debito statale, non sia sotto attacco sui mercati internazionali come Paese "a rischio". La buona posizione netta sull'estero rispetto alla ricchezza privata spiega anche perché Stati Uniti e Gran Bretagna, nonostante abbiano deficit statali primari oggi imponenti rispetto alle più virtuose Italia e Germania, siano percepiti come Paesi poco "a rischio". Giudizio che dovrebbe però tener conto del fatto che le due economie anglosassoni "stampano moneta" a profusione per mantenere alta la loro ricchezza finanziaria e sostenere il Pil e che il debito pubblico Usa, se includesse il debito degli Stati federali e le passività di agenzie governative come Fannie Mae e Freddie Mac, si avvicinerebbe al 140% del Pil.

Se poi consideriamo nello specifico il debito pubblico sottoscritto da stranieri, comprendiamo ancor meglio perché l'Italia non sia un Paese "a rischio". Infatti, sempre utilizzando gli indicatori del Fmi, nel 2010 il debito pubblico italiano collocato all'estero era pari al 47% del totale. Quindi il debito pubblico estero dell'Italia era il 56,4% del Pil (cioè il 47% del 120%): una quota esattamente simile a quella della Francia, che certamente non è considerato un Paese "a rischio". Non solo. Se rapportiamo il debito pubblico estero non al Pil ma alla ricchezza privata otteniamo i seguenti valori: Germania 32,6%, Francia 43%, Italia 31,6%. Dunque, in Italia la ricchezza finanziaria privata (senza considerare quella immobiliare che da noi è enorme) controbilancia meglio il debito pubblico estero di quanto non succeda in Germania e Francia.

Se prendiamo a riferimento l'intero debito pubblico (nazionale ed estero) nel 2011 esso era pari in Italia al 67% della ricchezza privata, esattamente come in Francia, e solo poco più alto che in Germania (62%), mentre in Grecia si arriva addirittura al 271% e in Irlanda al 190 per cento! Inoltre, rifacendo questi calcoli con gli ultimi dati Eurostat sul debito pubblico tedesco "revisionato" del 2010, esso risulterebbe del tutto uguale a quello dell'Italia se rapportato alla ricchezza finanziaria netta delle famiglie del 2009.

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