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Questo articolo è stato pubblicato il 27 maggio 2011 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 27 maggio 2011 alle ore 06:43.
«Là, da più lune, la sua pratica risognata attendeva, attendeva. Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d'una pratica s'insignisce di quella capacità di perfettibile macerazione che la capitale dell'ex-regno conferisce alla carta, si commisura a un tempo non revolutorio ma interno alla carta e ai relativi bolli, d'incubazione e di rammollimento romano.
S'addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de' decreti sua». Ci vuole la prosa acerba e virulenta di Carlo Emilio Gadda (nel "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana") per descrivere le esasperazioni del cittadino di fronte alla burocrazia.
Ma sono ancora più importanti le esasperazioni delle imprese, se non altro per il fatto che sono queste che danno lavoro ai cittadini. La presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha ricordato ieri che i fumosi ritardi e dinieghi per la centrale di Porto Tolle «sbattono la porta in faccia a migliaia di posti di lavoro».
E tanti altri esempi sono stati fatti e si potrebbero fare di quel groviglio di competenze e ricorsi che trasforma ogni investimento in una corsa ad ostacoli.
Ma l'invettiva di Gadda («Roma doma. Roma cova...») non rende appieno giustizia a un problema che è più complesso, sia geograficamente che culturalmente. È più complesso geograficamente perché della «corsa ad ostacoli» non è responsabile solo la «capitale dell'ex-regno». I comuni, le province, le regioni ci mettono del loro, e rischiano di mettercene ancora di più se un federalismo malamente rappezzato finirà col moltiplicare costi, poltrone e procedure. Ed è più complesso culturalmente perché a monte di questi stalli e di questi defatiganti muri di gomma vi è un doppio problema di attitudini e di mentalità. La cultura che presiede al "fare" della nazione è ancora un cultura legalistica che guarda alla lettera e non alla sostanza: intrisa di norme e di un malinteso adoremus per le regole, si risolve ogni giorno in un summum jus summa injuria che attizza liti e appelli sfilacciando l'intrapresa in un umiliante ricorso a codici e pandette.
Poi c'è quello che è stato chiamato un «pregiudizio ostile all'impresa». Il pragmatismo anglossasone non alligna nel nostro Paese, e l'impresa viene vista con sospetto, come un padrone interessato solo al profitto e intento a sfruttare ogni opportunità, etica o non etica, per allargare il dominio sulle risorse. L'economia di mercato, che è essenzialmente una mezzadria fra pubblico e privato, soffre di una res publica disattenta ai problemi dell'impresa; ma anche all'interno del privato soffre di una scarsa collaborazione fra datori e lavoratori. E il rimpianto è uno solo: quanto migliore sarebbe la nostra capacità di produrre e di creare occupazione se si potessero liberare quelle grandi energie latenti - di produttori e di lavoratori - che oggi sono impastoiate dal lacci, lacciuoli e diffidenze.
È ingenuo pensare che basti cambiare l'articolo 41 della Costituzione per sollevare il manto soffocante degli adempimenti e delle vessazioni. Non vi è niente nella Costituzione che impedisca di far funzionare meglio il Paese. Tutto sta nell'applicazione, non nei principi. Tutto sta nel porre mano, con pazienza e perseveranza, alla giungla delle regole e al dedalo delle competenze in conflitto. Non è un lavoro facile, né acquista a chi lo fa «onrata nominanza». Bisogna solo rimboccarsi le maniche e metter da parte le discussioni su convergenze parallele, bipolarismi, geometrie variabili, complotti mediatici e altre appassionanti diatribe. Ma, come ha concluso amaramente la Marcegaglia, le imprese han «dovuto prendere atto che le priorità della politica erano altre e diverse».
fabrizio@bigpond.net.au
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