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Questo articolo è stato pubblicato il 09 giugno 2011 alle ore 17:28.

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L'Economist in edicola venerdì torna a dedicare la copertina all'Italia e al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, titolando: «L'uomo che ha fregato un intero Paese» (l'originale è "The man who screwed an entire country"). All'interno del settimanale uno speciale di 14 pagine dedicato al nostro paese e curato da John Prideaux, 32 anni, giornalista del sito dell'Economist a Londra, dopo un'esperienza da corrispondente in India e Brasile.

Prideaux è stato in Italia per circa un mese parlando con diversi imprenditori, economisti e politici. «L'Italia è un paese dotato di aziende fantastiche - spiega durante la presentazione della sua inchiesta a Milano - ma a livello macro la situazione è molto deludente». La copertina dello speciale titola «Per un nuovo Risorgimento». La premessa, spiega il giornalista, è «un cambio di governo».

L'Economist, nonostante l'enfasi in copertina, dedica a Berlusconi soltanto le ultime pagine dell'inchiesta, ma la bocciatura è profonda. Scrive: «Nel 2004 il suo progetto era semplice: sfuttare le sue capacità imprenditoriali per fare ripartire l'Italia, che si sarebbe ispirata al suo esempio», ma la «debole performance economica del Paese è una prova sufficiente del suo fallimento. A conti fatti, Berlusconi ha troppo beneficiato della politica e della burocrazia per considerarli un nemico». Le colpe non sono tutte del premier: «Se l'Italia è un paziente con qualche strana malattia, Berlusconi ne è il sintomo più che la causa».

Il settimanale inglese nel 2001 aveva pubblicato una copertina con la foto del premier e la parola "unfit", cioé "inadatto" a governare il paese. Nel 2006 una nuova copertina e la scritta «Basta». «Quanto successo dopo ha confermato la nostra tesi», continua Prideaux.

Gran parte dell'analisi dell'Economist si concentra sul ritardo economico del Paese e sulle sue cause, focalizzandosi su scarsa produttività del lavoro, nanismo delle imprese, invecchiamento della popolazione, evasione fiscale, proprietà familiare, mercato finanziario asfittico, mancanza di competitività. «L'Italia è una vera giungla di piccoli privilegi, rendite e chiusure - scrive la rivista -. Ciascuno ha la sua lobby con cui lavora per rendere le riforme pressoché impossibili. Questo è particolarmente evidente nel settore dei servizi».

«Tra il 2000 e il 2010 la crescita media dell'Italia, misurata in Pil a prezzi costanti, è stata pari ad appena lo 0,25% su base annua. Di tutti i paesi del mondo, solo Haiti e Zimbabwe hanno fatto peggio». «L'Italia è diventato un paese a disagio nel nuovo mondo, timoroso della globalizzazione e dell'immigrazione», ha adottato una serie di poliche «che discriminano notevolmente i giovani a favore dei più anziani», ha una forte «avversione alla meritocrazia» e non ha «rinnovato le istituzioni».

L'Italia è tuttora la «seconda economia produttiva in Europa - spiega il giornalista -. Ed è vero che sta reagendo alla crisi meglio di Grecia, Portogallo e Irlanda. Ma una delle più grandi economie al mondo dovrebbe confrontarsi con la Francia e la Germania. La crescita era già molto bassa prima della crisi, dopo è andata ancora peggio».

Quali sono le riforme più urgenti per il Paese? «Bisogna favorire l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro: ci sono troppe corporazioni che favoriscono chi ne fa parte a scapito dei consumatori e di chi ne sta fuori - risponde Prideaux -. Poi vanno ridotti i tempi della giustizia, semplificato il fisco e riformata la formazione, soprattutto la scuola secondaria».

L'Italia, dopo Berlusconi, è diversa: «In generale le istituzioni hanno perso peso». Guardando avanti, al "nuovo Risorgimento" invocato dall'Economist, il Paese deve innanzitutto puntare sulla capacità imprenditoriale: «E' straordinario che in tutto il modo la gente preferisca i prodotti italiani». Inoltre «molti giovani stanno lasciando il paese perchè non ci sono opportunità, ma nel caso di una ripresa sarebbero felici di tornare - continua Prideaux - e la maggior parte delle riforme consistono in lievi modifiche della politica microeconomica, che non dovrebbero costare molto».

«Cambiare non è impossibile», insomma. Tuttavia, conclude lo speciale, «negli ultimi decenni il Paese è vissuto della rendita di un miracolo economico giunto al termine negli anni '70. Potrebbe andare avanti in questo modo più meno indefinitamente, impoverendosi e invecchiando sempre più, ma comunque restando a galla abbastanza agevolmente. Per il momento sembra che questa sia lo scenario più probabile. Ma il Paese ha un bisogno disperato di un nuovo risveglio, come quello che portò all'unificazione 150 anni fa».

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