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Questo articolo è stato pubblicato il 10 giugno 2011 alle ore 08:54.
L'ultima modifica è del 10 giugno 2011 alle ore 06:44.

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Il rapporto sugli scenari industriali del Centro studi di Confindustria mette in evidenza una situazione a doppia valenza. L'Italia rimane un Paese ad alta vocazione manifatturiera - il secondo in Europa dopo la Germania - ma non riesce ad agganciare la crescita che proviene dai Paesi emergenti, e anzi viene scavalcata da alcuni di questi (India, Corea del Sud) proprio nella classifica delle attività industriali.

Intendiamoci, non sarà un dramma se anche il Brasile prossimamente ci scavalcherà, come appare plausibile dall'andamento dei dati: si tratterebbe soltanto di una riduzione degli squilibri nei valori pro capite, il medesimo fenomeno per il quale la Cina ha appena superato gli Stati Uniti al primo posto in classifica.
Il problema sta nel fatto che la nostra propensione alla manifattura, cioè alla componente più tipicamente esportabile del valore aggiunto di una economia sviluppata, non è sufficiente a produrre in Italia tassi di crescita simili a quelli della Germania, in una fase congiunturale in cui proprio le esportazioni sono la più valida cinghia di trasmissione per trasmettere alle economie mature la forza motrice generata dalle economie emergenti. Significa forse che l'industria italiana non ha la stessa "qualità" di quella tedesca?

Proprio su questo giornale il 7 giugno Marco Fortis ha documentato alcune evidenze del contrario ("Export: la Germania non è lontana"), sottolineando come la risalita delle nostre esportazioni, rispetto ai livelli pre-crisi, segua solo di pochi mesi quella tedesca. Come si conciliano allora quei dati con l'allarme lanciato da Confindustria, secondo cui la nostra produzione industriale è ancora del 17% al di sotto dei livelli pre-crisi, mentre assai meglio hanno fatto altri concorrenti della zona euro?
In primo luogo va osservato che seguire la Germania solo di pochi mesi, come Fortis documenta, significa comunque fare un pochino meno bene. In secondo luogo, ritornare ai livelli pre-crisi significa ricollocarsi in una situazione di partenza assolutamente asimmetrica a nostro svantaggio, per molti aspetti.

Prendiamone uno: l'industria tedesca ha una propensione media all'esportazione pari al 53% del fatturato, quella italiana del 32%; a parità di tutte le altre condizioni, se la propensione all'esportazione dell'industria italiana si allineasse a quella tedesca, ne deriverebbe un aumento della produzione industriale annua di 26 miliardi (stima Prometeia), che invece mancano all'appello.
Ma c'è dell'altro: che avviene per quella parte del prodotto lordo che non è trainata dalle esportazioni, bensì dalla domanda interna? Quest'ultima si divide in domanda pubblica e domanda privata. Non è necessario spendere parole per affermare che la domanda pubblica italiana deve sottostare a limiti di finanza pubblica più restrittivi di quelli tedeschi, in particolare per la componente investimenti e per i suoi effetti moltiplicativi. Ma anche la domanda privata italiana è mortificata dal basso reddito pro capite disponibile, che deriva a sua volta: a) dalla mancata crescita della produttività nell'ultimo decennio; b) dall'elevato cuneo fiscale. Non c'è quindi necessariamente contraddizione tra il constatare - semplificando molto - che le imprese esportatrici stanno facendo bene rispetto al proprio passato e che il Paese nel suo complesso non sta facendo abbastanza.

Il fatto è che le imprese esportatrici non sono abbastanza numerose, e talvolta non sono abbastanza grandi, per raggiungere risultati adeguati alle aspettative e ai bisogni; che, effettivamente, la collocazione dei prodotti italiani e di quelli tedeschi per fasce di qualità favorisce nel complesso i secondi, consentendo di pagare meglio i fattori produttivi; e che una parte troppo grande del sistema delle imprese alimenta posti di lavoro a bassa produttività. E soprattutto che sulle loro spalle grava il peso intollerabile di un sistema asfissiante e inefficiente.
Nel leggere la sua ultima relazione da Governatore, Mario Draghi ha fornito una stima di due malattie che affliggono il sistema produttivo italiano, l'inefficienza del sistema giudiziario e di quello educativo: ciascuna di esse si mangerebbe l'1% del Pil potenziale, un costo mostruoso in termini sociali, prodotto da due sistemi istituzionalmente votati al bene pubblico. È solo una parte delle conseguenze della crescita di posti di lavoro, nella pubblica amministrazione centrale e locale, ma non solo nel sistema pubblico, caratterizzati sia dalla bassa efficienza, sia dal fatto di esser posti al riparo di ogni stimolo competitivo.

Anni di cattiva politica bipartisan hanno quasi incessantemente dilatato, insieme al debito, le aree di privilegio garantite alle più varie corporazioni, a danno del sistema. E adesso il sistema presenta il conto, in termini di performance inadeguata. Per uscirne non c'è che liberalizzare ciò che è protetto, privatizzare e sottoporre al mercato e alle autorità di regolazione ciò che è affidato alle clientele consociative, rinunciare a distribuire redditi non prodotti a carico dei contribuenti presenti e futuri.

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