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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2011 alle ore 08:27.
L'ultima modifica è del 23 giugno 2011 alle ore 06:36.

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Caro direttore, ho sinceramente apprezzato l'appello che numerosi e autorevoli commentatori del Sole 24 Ore, in ragione della loro scienza ed esperienza, anche comparate, hanno rivolto alle organizzazioni rappresentative del lavoro e dell'impresa per la generale condivisione delle regole relative a un più evoluto modello di relazioni industriali. È stato importante in primo luogo il richiamo a che il dialogo sociale si riveli capace di decisioni tempestive.

Troppo spesso e troppo a lungo esso è stato considerato un valore in sé e non un mezzo per accompagnare i necessari cambiamenti. Basti pensare che lo stesso accordo del 2009 sul modello contrattuale ha sostituito l'intesa del 1993 dopo almeno dodici anni di infruttuosi negoziati se si considera per essi quale base il Rapporto Giugni del 1997 con il quale si evidenziava l'esigenza di decentrare la contrattazione per collegare finalmente salari e produttività. E invero l'accordo del 1993 si era limitato a codificare e irrigidire quella politica dei redditi che nel decennio precedente, a partire dal Patto di San Valentino del 1984, aveva consentito di regolare tariffe, prezzi amministrati e salari in funzione del primario obiettivo di contrastare gli alti livelli di inflazione prodottisi.

Ma già allora, ricondotta l'inflazione a una dimensione fisiologica, il nodo fondamentale era diventata la produttività del lavoro che può ben tollerare - ed anzi si alimenta di - aumenti salariali purché tali da far scendere il costo del lavoro per unità di prodotto nelle aziende. L'accordo del 1993, controllando rigidamente i salari, ha certo consentito il nostro ingresso nell'euro ma al prezzo di una lunga china della competitività nazionale e di bassi livelli retributivi.

È giusto quindi sottolineare la svolta rappresentata dall'intesa del 2009 ma anche riconoscerne l'incompiutezza nel momento in cui mantiene contratti nazionali eccessivamente invasivi e non legittima quella piena espressione della contrattazione di prossimità nella quale sola le parti possono adattarsi reciprocamente per competere, crescere, distribuire i risultati in termini di posti di lavoro ed aumenti salariali. È ben vero che il panorama imprenditoriale italiano è molto complesso e variegato, che vi sono aziende piccole - molte - e aziende grandi - poche - così come vi sono aziende capital intensive e altre a forte intensità di lavoro. Proprio per questa ragione le parti dovrebbero innanzitutto riconoscere l'obiettivo di favorire logiche di cooperazione e partecipazione facendone discendere una pluralità di modi con cui sostenerle.

L'intensa e originale storia delle relazioni industriali in Italia, particolarmente influenzata dalle ideologie del Novecento, può ora del tutto affrancarsi da esse ricollocandosi nella dimensione naturale della collaborazione tra imprese e lavoratori garantita dalla equa distribuzione dei risultati. Il conflitto, tanto individuale quanto collettivo, può essere ricondotto a una estrema patologia attraverso il dialogo quotidiano e strumenti di prevenzione e di agevole mediazione.

Tutta la esperienza italiana si è svolta nel segno del principio di effettività degli accordi secondo il quale si applica a tutti i lavoratori, su scala nazionale o aziendale, l'ultimo contratto che c'è. E ovviamente l'unico che c'è. So bene che la dimensione aziendale sollecita una specifica verifica del consenso così come invoca una stagione di tregua a seguito dell'accordo. Ma non possono essere le sentenze "creative", residua espressione del Novecento ideologico, ad orientare il legislatore. Tocca alle parti difendere orgogliosamente la propria autonomia, rivendicare anzi un ampliamento dei suoi spazi, dare valore all'iscrizione sindacale, definire regole rivolte più a disciplinare il consenso che non il dissenso in termini di democrazia decisionale e perciò delegata. Regole per facilitare e non per ostacolare lo sviluppo delle imprese e dell'occupazione. Regole che il legislatore, su richiesta, può al più sostenere con quella "leggerezza" che non apre spazi all'incursione giudiziaria e, al tempo stesso, garantisce certezze in quel delicato spaccato delle relazioni umane che sono le relazioni industriali.

Maurizio Sacconi
Ministro del Lavoro

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