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Questo articolo è stato pubblicato il 01 luglio 2011 alle ore 10:12.

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Angelino AlfanoAngelino Alfano

ROMA - Come vuole la tradizione, anche questo fine-luglio avrà il suo tormentone sulle intercettazioni. Ieri, su richiesta del Pdl, la Conferenza dei capigruppo della Camera ha infatti inserito il ddl del governo nel calendario dell'aula, sia pure all'ultimo punto, nella settimana prima della pausa estiva, la stessa in cui a Montecitorio arriverà la manovra economica, ovviamente prioritaria.

Probabilmente, quindi, il ddl slitterà a settembre, come lasciava intendere ieri il capogruppo Pdl Fabrizio Cicchitto. E già questa (vista la tradizione) sarebbe una notizia. Se non ce ne fosse un'altra, più significativa.

Nel calendario non c'è la riforma «epocale» della giustizia, quella che Silvio Berlusconi e il ministro della Giustizia uscente, Angelino Alfano, avevano assicurato che sarebbe stata votata a luglio, in prima lettura, per dare un segnale concreto della volontà politica di approvarla entro la legislatura. Tanto che, in funzione di quella scadenza, le commissioni riunite (Affari costituzionali e Giustizia) erano partite in quarta con audizioni "spot", talmente spot da far irritare più d'uno degli invitati, costretto a declinare e a rinviare. I tempi si erano allungati, ma le commissioni erano comunque pronte a chiudere i lavori se la maggioranza avesse confermato le dichiarazioni di Alfano (l'ultima è della settimana scorsa), e cioè che la riforma costituzionale della giustizia sarebbe approdata in aula prima della pausa estiva. Ieri, invece, non è stata indicata tra le priorità del Pdl. «È ancora in commissione – ha spiegato, lapidario, Cicchitto – penso che andrà a settembre-ottobre».

Esce, dunque, la riforma «epocale», entra il ddl intercettazioni. Sulla carta, la tradizione è salva. Dal 2005 ad oggi, infatti, le intercettazioni hanno sempre surriscaldato le aule parlamentari. Sempre a fine luglio e sempre in coincidenza con la pubblicazione di telefonate captate durante inchieste in corso: nel 2005 c'era la scalata Antonveneta, nel 2006 il caso Telecom, l'anno dopo quello Unipol-Bnl, nel 2008 il caso Saccà, nel 2009 l'inchiesta di Bari su Tarantini, l'anno scorso l'indagine sulla P3 e la «cricca». Sotto l'ombrellone o ad alta quota, si leggeva della stretta sugli ascolti voluta dai governi di turno, di scontri al calor bianco tra maggioranza e opposizione, delle proteste di magistrati e giornalisti. Le "riforme" di volta in volta proposte, però, non hanno mai visto la luce. E sono in pochi a credere - anche nell'attuale maggioranza - che proprio questa riuscirà a tagliare il traguardo, perché non piace a nessuno.

In teoria, il ddl del governo che limita il ricorso agli ascolti e ne riduce gli spazi di pubblicazione dovrebbe riprendere il cammino da dove si era interrotto, il 29 luglio dell'anno scorso, quando, terminata la discussione generale, si decise di congelarlo. Il testo (già approvato una prima volta dalla Camera, poi modificato dal Senato e infine tornato a Montecitorio) era stato significativamente modificato in commissione Giustizia, dopo un lungo braccio di ferro tra Berlusconi e Fini (e la sua alter ego in commissione, Giulia Bongiorno) soprattutto nella parte sulle indagini. Il risultato finale (intercettazioni pubblicabili solo se rilevanti, proroghe di 15 giorni per gli ascolti, possibilità di collocare ricetrasmittenti anche in automobili e uffici, sanzioni ridotte per gli editori, carcere per le "talpe" delle Procure e per chi registra in modo fraudolento) fu pubblicamente sconfessato da Berlusconi, che ora medita di tornare al testo del Senato (su cui, però, il Quirinale aveva avanzato più d'una riserva) o di stralciare la parte sulla pubblicazione delle telefonate per concentrarsi su questa.

Opposizione, toghe e stampa sono già sul piede di guerra: il Pd chiede di ripartire dal proprio testo presentato al Senato; l'Idv invita Berlusconi «a rassegnarsi»; la Fnsi parla di «inutile forzatura» e l'Anm ricorda che «la giustizia ha altre priorità». Ma sul fronte opposto si registra cautela: il berlusconiano Enrico Costa è certo che, con il voto segreto, «un testo equilibrato e giusto sarebbe approvato almeno da un centinaio di parlamentari dell'opposizione» e il ministro Gianfranco Rotondi ribadisce che «la fretta è inopportuna».

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