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Questo articolo è stato pubblicato il 05 luglio 2011 alle ore 08:59.
L'ultima modifica è del 05 luglio 2011 alle ore 06:39.

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Sui gravi incidenti in Val di Susa nessuno può accusare Bersani d'essere ambiguo. Il segretario del Partito Democratico ha condannato con durezza gli atti di violenza: chi li provoca e chi li compie, «ma anche chi in qualche modo volesse giustificarli». Parole ineccepibili. Eppure l'impressione è che la drammatica domenica tra le montagne piemontesi abbia assestato un colpo al centrosinistra.

Ne ha messo a nudo una volta di più le contraddizioni di fondo. Quelle contraddizioni che lo rendono fragile, nonostante il vento nuovo delle amministrative, del referendum e tutti gli argomenti che accreditano un clima cambiato nel paese.
Non sarà un caso, del resto, se il presidente della Repubblica ha emesso domenica sera una nota che non ammette repliche. Napolitano parlava in difesa delle forze dell'ordine e della dignità delle istituzioni. Ma le sue parole sulla necessità di «isolare i violenti» erano rivolte «a tutte le componenti democratiche». Quindi, è chiaro, anche a quelle forze della sinistra che non sono state rapide come Bersani nel comprendere il serio rischio che incombe nell'aria.

In Val di Susa si erano dati convegno gli esponenti della nuova sinistra in tutte le sue espressioni. È la sinistra «contro». Contro la Tav, ma anche contro gli inceneritori, le basi americane, la Fiat di Marchionne, eccetera. Un movimento trasversale in cui c'è dentro di tutto: in prima linea nella battaglia referendaria anti-nucleare e anti-acqua e altrettanto contro le «caste politiche» romane in nome di un autonomismo territoriale molto più anarchico e radicale di quello leghista (e infatti dall'altra parte della barricata c'è un ministro dell'Interno che si chiama Maroni).
Non è strano che questo arcipelago variopinto abbia attirato black bloc, gente dei centri sociali e di quella che una volta era l'area dell'autonomia, estremisti pronti a fare della valle un piccolo Vietnam. Il problema è che i leader, o supposti tali, della sinistra «contro» sono rimasti spiazzati dalle violenze e non hanno saputo far altro che lasciarsi trascinare dagli eventi.

Il capo del Movimento Cinque Stelle, Beppe Grillo, domenica ha parlato di «dittatura» e ha paragonato i dimostranti a degli «eroi» (in seguito per fortuna ha un po' corretto il tiro). Gli esponenti di Rifondazione e dei verdi hanno accusato il governo di aver «militarizzato» la valle. E Vendola, ossia il partner privilegiato del Pd, ha, sì, condannato gli eccessi, ma ha anche detto che non bisogna «strumentalizzare» gli eventi. Fra poco leggeremo che la responsabilità è tutta delle forze dell'ordine e di agenti provocatori desiderosi di ripetere l'esperienza di Genova 2001.
Colpisce la distanza fra queste pulsioni e l'appello accorato del capo dello Stato. È evidente che una sinistra di governo, nella seconda decade del secolo, può assumere responsabilità istituzionali solo se s'identifica nei presupposti indicati da Napolitano. Ammiccando agli estremisti, o peggio non rendendosi conto dei pericoli, è difficle immaginare che il nuovo Ulivo faccia molta strada. O non vince le elezioni o, se le vince, non riesce a governare una società complessa. E qui Bersani avrà molto da lavorare. Vendola e Grillo sono, in forme diverse e scomode, i suoi interlocutori. Non basta compiacersi che abbiano preso le distanze dai violenti (con notevole ritardo). È necessario che contribuiscano a loro modo a una cultura di governo. E sotto questo profilo siamo in alto mare.

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