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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2011 alle ore 10:00.
L'ultima modifica è del 15 luglio 2011 alle ore 07:58.

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L'approvazione in Parlamento di una manovra in cinque giorni è un inedito assoluto. Se stasera arriverà il sì della Camera l'operazione sarà compiuta. E sarà l'ennesima dimostrazione che, quando si trovano con le spalle al muro, l'Italia e la sua politica sanno reagire e sanno fare quel che va fatto.

Questa manovra è un segnale importante per il mercato. Lo è nei tempi dell'approvazione. E lo è nei saldi, che sono stati rafforzati fino a raggiungere quei 48 miliardi necessari per centrare l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2014. Non è poco. Ma ora serve una fase due. Una fase che si chiama crescita. Perché senza crescita non c'è rigore finanziario che potrà tenere a lungo l'Italia al riparo dalle incertezze (e dagli appetiti) dei mercati. La crescita è fattore essenziale della stabilità del Paese. Non c'è risanamento senza crescita. In questo senso la manovra che il Parlamento si accinge a varare non è scevra da ombre. È un bene aver rafforzato i saldi. Ma averlo fatto mettendo a bilancio un taglio di 20 miliardi alle agevolazioni fiscali entro il 2014 significa un potenziale consistente aumento della pressione fiscale.

Intervenire sulla giungla delle oltre 400 tra deduzioni, detrazioni e bonus è cosa giusta. Ma sarebbe stato auspicabile un riordino ragionato, con la cancellazione di agevolazioni anacronistiche e il potenziamento di quelle destinate invece a sostenere la produzione e il lavoro. Si sarebbero, in questo modo, ottenuti risparmi, ma si sarebbe anche data una spinta allo sviluppo. Ecco rigore e crescita che possono andare insieme.

Anche la riforma dell'Ice rischia di essere in questo senso un'occasione persa. L'accorpamento delle sedi dell'istituto nelle ambasciate avrebbe consentito di semplificare, e risparmiare, rendendo nello stesso tempo più efficace la rappresentanza all'estero del sistema produttivo. L'ultima trattativa nel governo, con le resistenze del ministero dello Sviluppo, hanno però vanificato l'obiettivo.

Anche sulle liberalizzazioni delle professioni, altra misura di sviluppo a costo zero, è prevalso l'ostruzionismo degli interessi di parte. L'opposizione degli avvocati e dei notai del Pdl, e non solo, è stata forse la pagina meno nobile di tutta questa manovra, mettendo a rischio per ragioni di categoria l'interesse del Paese. Eccolo il Titanic evocato ieri in Parlamento da Tremonti. Il ministro faceva riferimento soprattutto all'Europa e all'incapacità dei suoi Paesi leader di traguardare lo sguardo oltre gli immediati interessi elettorali. Ma quei parlamentari si sono calati perfettamente nella parte degli orchestrali che continuano a suonare mentre la nave affonda.

Per fortuna, e per merito della maggioranza del Parlamento, questi atteggiamenti non hanno impedito di far arrivare a un passo dal traguardo una manovra che era essenziale per dare una risposta ai nervosismi dei mercati. Al di là degli aspetti discutibili, avere approvato misure per oltre 45 miliardi in tempi così rapidi è un risultato insperato. Ma ancora di più lo è la coesione e il senso di responsabilità che per una volta la politica ha dimostrato.

Il presidente Giorgio Napolitano ieri lo ha definito «un miracolo». Non senza auspicare «altre prove di coesione». L'occasione per dare seguito alle sue parole potrebbe essere proprio un piano straordinario per la crescita, intorno al quale unire il Paese. Non solo la politica, con la sua maggioranza sfilacciata e la sua opposizione spesso inconcludente, ma anche le forze della società, le imprese, i sindacati. Ciascuno mettendoci del suo, ciascuno rinunciando a qualcosa.

La manovra ha tenuto in carreggiata la macchina, ora è tempo di darle benzina per tornare a macinare terreno. Anche perché quando lunedì i mercati riapriranno la manovra sprint sarà già passato. E ai desk dei trader si tornerà a guardare all'Italia in cerca di buone ragioni per acquistare o per vendere titoli italiani.

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