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Questo articolo è stato pubblicato il 15 luglio 2011 alle ore 06:44.

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Una crisi di fiducia sul terzo debito del mondo non si risolve da un giorno all'altro, né con un rimbalzo della Borsa. Non abbiamo idea della devastazione che potrebbe provocare, forse non c'è neanche una soluzione. Sarebbe l'affondo finale all'euro, la mossa che potrebbe portare allo scacco matto. D'altra parte è una partita che si gioca già da tanto tempo, prima con la Grecia, poi con Irlanda e Portogallo, ora con l'Italia, saltando la Spagna.

Da un lato il mercato cinico e avido, dall'altro i governi europei senza attributi. Non è questa una crisi di cui abbiamo memoria storica, né paragonabile a quella che abbiamo vissuto nel 1992, quando gli speculatori attaccavano più il tasso di cambio che il debito. Momenti certo drammatici, ma dopo la svalutazione della lira tutto gradualmente ritornò alla normalità. Oggi abbiamo una moneta unica e non possiamo più svalutare. La crisi colpisce direttamente il debito e la sua sostenibilità. Il punto critico è capire se sia il caso di seguire una soluzione di "mercato", cioè se si debba fare di tutto per soddisfare i desideri del mercato e ripristinare la fiducia - posto che si sappia cosa il mercato vuole - oppure se bisogna pescare dal cilindro delle soluzioni non ortodosse.

È sufficiente approvare la manovra correttiva, tanto criticata e scannerizzata dai mercati, anche in tempi brevi? Probabilmente no. Il passo successivo è che l'Italia faccia di più, come proposto da Roberto Perotti e Luigi Zingales (Il Sole 24 Ore del 9 e 13 luglio). Che si arrivi al pareggio di bilancio da subito o lo si incida nella Costituzione, così come ha scritto Carlo Bastasin (Il Sole 24 Ore del 12 luglio). Ma anche in questo caso il rischio di avvitarsi in un circolo vizioso è molto alto e quindi di cadere preda della speculazione. Pareggiare il bilancio significa coprire la spesa per interessi con gli avanzi primari. La crisi di fiducia può portare i tassi a livelli così elevati che ulteriori manovre correttive risulterebbero non credibili, eccetto forse che si intacchi il nostro tesoretto. Da un lato le aziende pubbliche, e alcune sono dei piccoli gioielli, dall'altro le nostre virtù private, cioè la ricchezza finanziaria e reale delle famiglie che può garantire i vizi del debito pubblico. Ecco che privatizzazioni o una tassa patrimoniale ci potrebbero salvare. Ma dobbiamo arrivare a tutto ciò, con i tempi stretti che il mercato ci imporrà, per poi scoprire di essere più poveri senza aver raggiunto il nocciolo della questione?

La crisi italiana è anche, e soprattutto, crisi europea. La soluzione non può che essere europea e possibilmente poco ortodossa. In effetti, la crisi dei subprime americani ci ha insegnato proprio che la chiave di uscita da crisi sistemiche è nel trovare soluzioni fuori dal mercato o che lo aggirino. Il giorno prima della caduta di Lehman Brothers tutti erano convinti che fosse cosa giusta farla fallire. Il giorno dopo, Aig fu salvata dalla Fed con una manovra ai limiti di quello che una banca centrale può fare. Allora i tempi di svolta furono rapidissimi - un giorno - e c'era un'istituzione come la Fed che si sobbarcò il salvataggio, mentre il Congresso americano era paralizzato. In che tempi e modi, oggi, possiamo contare su un'istituzione europea che salvi l'euro e tolga dal mercato il debito malato dei "Piigs"? La Bce è fuori gioco a rincorrere i miraggi di un'inflazione che non c'è, e i rialzi dei tassi d'interesse hanno già provocato parecchi danni.

La riunione dell'Eurogruppo di lunedì scorso è sembrata andare nella direzione giusta, anche se con contorni poco chiari e con il problema dell'Italia ancora indiscusso. Finalmente si apre la possibilità che il fondo di salvataggio europeo Esfs acquisti debito sul mercato secondario o lo faccia acquistare indirettamente dagli stessi governi. Così si può pensare ad una ristrutturazione ordinata fuori mercato che permetta di ripartire le perdite fra le varie parti e alleviare l'onere del debito greco in forma sostenibile. Willem Buiter, capoeconomista di Citigroup, ha fatto notare che, con l'Italia nel mirino dei mercati, l'Esfs dovrebbe portare la sua capacità a 2mila miliardi di euro. Chi mai può dare così tante garanzie se non un finanziamento diretto della Bce e quindi una monetizzazione implicita dei debiti pubblici?

La via più lineare sarebbe riprendere la proposta degli Eurobond, forse nella versione più radicale che abbiamo suggerito sul Sole dello scorso 5 luglio, cioè di convertire tutto il debito dei singoli Stati in debito federale con un trasferimento proporzionato di entrate fiscali che sia in grado di pagare anno per anno gli interessi. A questo punto, si potrebbero costringere i singoli governi a raggiungere il pareggio di bilancio dal momento che sarebbe un pareggio senza spesa per interessi e non soggetto più alla speculazione.
Arrivati a questo stadio della crisi, la soluzione di rafforzare in maniera drastica l'Unione europea è l'unica che non porta al fallimento dell'euro.
pbenigno@luiss.it

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