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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2011 alle ore 08:50.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2011 alle ore 06:36.

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Eurobond. C'è chi giura che prima o poi, un passo dopo l'altro, anche l'ultimo grande tabù dell'unione monetaria sia destinato a cadere. Che l'indomita resistenza tedesca finirà per soccombere perché nessuno, nemmeno la Germania, può permettersi di seppellire allegramente la moneta unica in crisi.

Del resto basta guardarsi indietro per accorgersi di quanti sacri dogmi ideologici, "nein" irremovibili, norme giuridiche blindate nei Trattati Ue sono stati travolti in poco più di un anno dall'emergenza euro. Dalla clausola di "no-bail-out" ai primi passi del governo economico dell'Uem, un tempo puro anatema per la Germania che lo considerava veicolo di nefasta influenza da parte della cultura franco-mediterranea.
Alla creazione del Fondo salva-Stati: prima rigorosamente temporaneo poi permanente (dal 2013). Prima rigidamente limitato nei compiti, ora dotato di flessibilità per rispondere con prontezza ai mercati, che si tratti di ricapitalizzazione preventiva di Stati o banche e di acquisti di bond sovrani sul mercato secondario. Una specie di mini-Fondo monetario europeo, in sinergia con la Bce per alleggerirne oneri e responsabilità anti-crisi.

Giovedì scorso a Bruxelles il vertice dei 17 dell'Eurozona ha rafforzato il sistema antincendio con l'assenso unanime di tutti i potenziali pompieri disinnescando così non solo la bomba Grecia ma anche gli attacchi speculativi contro Spagna e Italia. Fino a quando? Già perché anche il raddoppio a 800 miliardi delle risorse del fondo-salvaStati (Efsf) resta lontano da quei 1.500-2000 miliardi ritenuti il capitale minimo necessario a garantire una credibile difesa delle maggiori economie dell'euro.

Impensabile però che a questi livelli possano provvedere i soci di un club già pesantemente provato da bilanci austeri e riforme strutturali difficili in un contesto di crescita economica modesta e disoccupazione abbondante. Che semmai incoraggia miopie e egoismi nazionali nei Governi e anti-europeismo primario nelle pubbliche opinioni.
Per non rischiare di nuovo l'angolo di un'emergenza dirompente da tamponare in extremis e a costi crescenti, la risposta si chiama eurobond, cioè la vecchia idea di Jacques Delors poi rilanciata senza successo da Giulio Tremonti. In breve la facoltà per l'Efsf di emetterne per finanziarsi sui mercati e spegnere futuri incendi nella foresta dei debiti sovrani o carburare sviluppo foraggiando grandi progetti transeuropei, reti e infrastrutture essenziali per ottimizzare i benefici di mercato e moneta unica.

«Niente più della garanzia congiunta sui debiti sovrani potrebbe distruggere in modo rapido e duraturo l'incentivo a solide politiche di bilancio nazionali» tuona Jens Wiedman, il giovane presidente della Bundesbank. Con il risultato, avverte, che «tutti i contribuenti europei e soprattutto tedeschi sarebbero chiamati a coprire l'intero debito greco, creando quell'Unione dei trasferimenti cui giustamente la Germania si oppone da sempre». La doccia non poteva essere più gelida. E più monotona.
Il problema non è l'eurobond ma l'Europa, come da oltre un anno il problema non è stato la Grecia con il suo 2% del Pil dell'Eurozona ma il destino dell'euro. Quanto tempo ci vorrà prima che la Germania e i paesi più ricchi e virtuosi del Nord si rassegnino all'inevitabile?

Nei suoi primi 10 anni di vita l'euro è stato un successo al punto da far dimenticare che era nato monco: dell'unione economica e di quella politica. La crisi greca l'ha messo brutalmente di fronte alla realtà della sue macroscopiche carenze strutturali, a cominciare dal non governo delle sue troppe eterogeneità culturali, politiche, socio-economiche e competitive. Alla fine è arrivato il corto circuito. Si è corso ai ripari: tecnicamente più che politicamente. Con il contagocce più che con un soprassalto di coraggio e di visione comune.
Nel mondo globale l'Europa e l'euro rappresentano la dimensione minima per sopravvivere secondo il proprio modello di società. Eppure l'unione dei trasferimenti per dirla alla tedesca, dell'integrazione ritmata anche dalla solidarietà per essere più chiari, resta uno scandalo.

Certo, gli squilibri dentro la moneta unica restano ancora grandi ma la sua impronta tedesca insieme alla cultura della stabilità si stanno allargando alla macro-economia. A queste condizioni l'eurobond può rappresentare sì un rischio ma controllato. Allora per una volta perchè non provare a precorrere gli eventi spiegando a tutti i cittadini-contribuenti che l'Europa non è un pozzo senza fondo di aiuti in distribuzione comunque molto condizionata ma un grosso affare per tutti senza eccezioni? Se è vero che l'industria tedesca ricava da euro e mercato unico vantaggi per 10 miliardi di euro all'anno, davvero non vale la pena di salvare la Grecia e cominciare a scommettere sugli eurobond?

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