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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2011 alle ore 08:42.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2011 alle ore 06:41.
Chi immaginava che la morte del giovane paracadutista in Afghanistan avrebbe spinto la Lega a qualche colpo di testa, ha sottovalutato la vischiosità della politica. Soprattutto quando ricorrono, come in questo caso, tre circostanze, tutte rilevanti.
La prima: stanno per cominciare le vacanze estive e nessuno ha voglia, dopo tanto penare, di aprire proprio adesso una crisi di governo (perchè è chiaro che di crisi si tratterebbe, se la Lega abbandonasse la coalizione su un punto cruciale come la politica di difesa).
La seconda: gli accordi con gli Stati Uniti e con la Nato prevedono un lento e ordinato ridimensionamento dell'impegno militare sul teatro afgano. Quello che ormai tutti definiscono in inglese un'«exit strategy». Gli stessi accordi non mettono in conto un ritiro precipitoso e alla spicciolata di questo o quell'alleato, cosa che sarebbe senza dubbio nell'interesse dei talebani.
Naturalmente questo non esclude che un governo possa decidere il ritorno a casa unilaterale (ad esempio lo fece a suo tempo la Spagna di Zapatero). Ma la linea a cui è ancorato il centrodestra a Roma, con il sostegno del Quirinale e l'appoggio di una parte dell'opposizione (Pd e Udc), prevede che da Kabul ce ne andremo insieme agli americani. Di qui la necessità di rifinanziare le missioni a scadenze periodiche. Ai leghisti tocca adeguarsi, nonostante i distinguo verbali.
Terza circostanza, la più politica: la Lega ha operato nei giorni scorsi uno strappo non da poco quando ha votato alla Camera per l'arresto del deputato del Pdl Alfonso Papa. Come sappiamo, quel voto è stato un colpo per Berlusconi. Si è parlato di «tradimento» e di punto di non ritorno nella vecchia relazione fra il partito del premier e il movimento nordista.
E c'è del vero in queste interpretazioni, se non altro perchè risulta evidente che Bossi ha lasciato fare i suoi. Non si è trattato di un «tradimento» di Maroni, come è stato detto, ma di Bossi che ha fatto sua almeno in parte la linea del ministro dell'Interno. E pazienza per l'antico asse con Berlusconi.
Risultato. Contenta e soddisfatta la base del Carroccio, inquieta e più fragile la coalizione. Ecco perchè, dopo il caso Papa, è necessario placare le acque. Se oggi Bossi e i suoi votassero contro la missione militare, il cosiddetto «popolo del Nord» andrebbe in visibilio. Ma il governo difficilmente sopporterebbe il nuovo trauma. In altri termini, la vicenda di Papa ha un po' esaurito la spinta ribellistica della Lega. Almeno fino a settembre, quando i giochi riprenderanno.
Tutto questo non significa che qualche rappresentante del Carroccio non possa votare contro, a titolo più o meno personale (ad esempio, Castelli). Ma sul piano politico Calderoli ha già chiuso il discorso: la Lega sulle missioni all'estero ha ottenuto quello che poteva (in realtà poco) e adesso dirà «sì» all'Afghanistan, sia pure controvoglia. Ovvio che questa lezione di realismo non piacerà all'elettorato padano. E non c'è da stupirsi, visto che si parla di un mondo dalle reazioni prevedibili. Un mondo che si entusiasma per il voto su Papa, ma considera una sostanziale presa in giro l'apertura degli uffici ministeriali al Nord. Delle cautele nell'«exit strategy» da Kabul non sa che farsene, come pure delle alchimie che regolano il rapporto logorato con Berlusconi. Vorrebbe una Lega sempre combattiva, ma stavolta dovrà accontentarsi. Lo stillicidio continua, in attesa dell'autunno.
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