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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2011 alle ore 16:22.
L'ultima modifica è del 28 agosto 2011 alle ore 16:22.

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Se Atene piange, Berlino non ride. Chi, tuttavia, si muove nel devastante caos dei mercati finanziari, rischiando una depressione dall'incerto futuro è l'euro, ma ancor più l'intera Europa. Il mesto parallelo fra Atene e Berlino non è casuale. Oltre, infatti, alle abbondanti, ma spesso vacue e confliggenti, ricette da varie parti avanzate per la soluzione della crisi, Grecia e Germania, il Paese più povero e quello più ricco, sono finite oltre che in un ginepraio economico in un inusitato e sconcertante conflitto giuridico.
Non bastano forse più le teorie economiche dei mercati a legittimare asimmetrie, diseguaglianze e ingiustizie, ma è necessario ora, per giustificarle, ricorrere al diritto? Il presidente della Repubblica tedesca Christian Wulff ha di recente criticato aspramente gli acquisti dei titoli pubblici di alcuni Paesi da parte della Bce, definendoli «discutibili sul piano legale», mentre il cancelliere Angela Merkel ha proposto che la Corte di Giustizia europea vigili sul rispetto del Patto di stabilità. Quel che peraltro appare più singolare è che un gruppo di imprese tedesche si siano affidate a Europolis, che si autodefinisce think tank interdisciplinare di economisti e giuristi il cui scopo principale è quello di rivendicare la priorità nei Trattati europei del principio di sussidiarietà, al fine di citare in giudizio la Corte costituzionale tedesca davanti alla Corte europea dei Diritti dell'uomo.

L'accusa consisterebbe nella violazione del "diritto al giusto processo" previsto dall'articolo 6 della Convenzione per non avere la Corte costituzionale preventivamente consultato quella di Giustizia europea sulla compatibilità delle sue decisioni con i principi del diritto comunitario. Le accuse alla Corte costituzionale sono varie e la più importante è di aver ritenuto irricevibili i ricorsi sull'illegalità degli aiuti alla Grecia, sulla violazione del patto europeo di stabilità finanziaria e, in modo particolare, sull'illegalità degli acquisti di titoli di Stati sovrani da parte della Bce.
Capitalismo e diritti umani si sono sempre intrecciati in un non certo limpido binomio fin dai tempi delle Compagnie delle Indie ed ora delle grandi imprese multinazionali, favorite dalle possibilità di dislocazione delle loro produzioni in Paesi dove la protezione dei diritti umani è estremamente lacunosa. Che i diritti umani, al centro di tutte le teorie della giustizia, siano pur sovente vilipesi, anche nelle maggiori democrazie come negli Stati Uniti ad esempio, nella base di Guantanamo, con l'applicazione del principio di eccezione per garantire la priorità a ragioni di sicurezza nella guerra al terrorismo, non pare certo una buona ragione per una loro ulteriore volgare strumentalizzazione. Dietro il ricorso per la violazione dei diritti umani da parte di imprese, economisti e giuristi tedeschi, ci sta ovviamente la teoria che il diritto europeo debba prioritariamente ispirarsi al principio di sussidiarietà, con prevalenza degli interessi e delle decisioni dei singoli Stati, piuttosto che al principio di solidarietà nei confronti dei Paesi dell'Unione più svantaggiati.

Vale allora la pena di ricordare che la Germania nel bel mezzo dell'attuale crisi mondiale è diventata, dopo la Cina, il secondo paese esportatore del mondo, con le esportazioni che hanno rappresentato ben i due terzi della sua crescita economica. La mano d'opera tedesca qualificata ha creato beni ad alto valore aggiunto, come le automobili, diventati consumi di lusso nei nuovi mercati. Non è certo un caso che la Cina da sola costituisca il 25% dei profitti globali della Bmw. I più razionali rapporti con il mondo del lavoro, al quale peraltro lo Stato ha garantito sicurezza e protezione e le piccole e medie imprese conosciute come Mittelstand impiegano milioni di persone con assoluta priorità di cittadini tedeschi, hanno certamente favorito la maggiore produttività del sistema industriale. Tuttavia, e ciò va sottolineato con forza, il maggior vantaggio per la Germania è derivato dall'introduzione dell'euro nel 1999 fondendo il suo gigante industriale con Paesi a minor capacità concorrenziale, come la Grecia, l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l'Italia e infine la Francia. Ebbene, l'80% del surplus tedesco proviene addirittura dal commercio con il resto della Ue. È così che la complessivamente debole economia europea e le crisi dei vari debiti pubblici hanno tenuto il valore dell'euro ben al di sotto di quello del marco, qualora ancora esistesse, e che secondo le stime odierne sarebbe apprezzato sull'euro di circa il 40%. Lo stimolo economico che è derivato dalla sottovalutazione dell'euro ha portato alla Germania un enorme vantaggio competitivo rispetto anche ad altri Paesi, con monete meno svalutate come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Maggiore equità sociale, occupazione stabile, costante sviluppo economico e grande competitività nelle esportazioni sono dunque fattori che la Germania ha raggiunto grazie alla moneta unica ed alla sua sottovalutazione, a danno degli altri Paesi e a vantaggio suo.

Ora, paradossalmente, vuole persino invocare i diritti umani per proteggere la sua posizione di privilegio ed evitare qualunque forma di solidarietà nei confronti dei Paesi dell'Unione meno privilegiati. Ma pare a me una politica di grande cecità poiché avrebbe come conseguenza la fine dell'euro e, come già stato precisato da voci autorevoli, costituirebbe la devastazione totale dei mercati finanziari e del commercio internazionale e della stessa economia tedesca. È dunque tempo che oltre all'Europa economica, al mercato e alla moneta unica si completi l'Europa del diritto. Un'Europa laica, che rispetti la grande civiltà giuridica occidentale e ricordi a tutti i suoi Paesi e alle loro attuali scadenti classi dirigenti che le democrazie sono ispirate ai principi di libertà, eguaglianza e fraternità. E sono proprio questi ultimi due che il diritto europeo deve, come priorità assoluta ancora attuare, ma non è che questa prospettiva debba seguire la scia del germanico ius publicum europaeum, teorizzato dal Karl Schmitt, né nei rigurgiti di Michael Lewis, lo scrittore americano che ha ora fornito su Vanity Fair, ripresa anche dall'Economist, una inquietante versione psicanalitica dell'euro e dell'economia tedesca. Non è la sussidiarietà, ma la solidarietà che ispirò i padri fondatori dell'Europa nel Trattato di Roma. È da lì perciò che bisogna partire per fondare una nuova Costituzione Europea piuttosto che da ambigue e slabbrate formulazioni economiche o pasticci legalistici.

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