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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2011 alle ore 08:50.
L'ultima modifica è del 09 settembre 2011 alle ore 08:51.

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L'euro è un assetto monetario, non una religione. Dunque non c'è nulla di strano se tutti i Paesi che lo adottano cercano di capire se i suoi benefici sono superiori ai costi. Il Paese dove questo calcolo è più gravido di conseguenze o più pressante per l'Europa è la Germania, probabilmente il maggior beneficiario dell'euro, ma anche quello che dovrà sopportare i costi maggiori di un proseguimento di questa esperienza.

Quando è scoppiata la crisi della moneta unica, la Germania dava la colpa agli altri ma, via via che sempre più Paesi venivano risucchiati nel baratro, la sua tesi è diventata insostenibile. La Grecia poteva essere accusata d'irresponsabilità finanziaria, ma la Spagna? Il Portogallo poteva essere accusato di performance economiche regolarmente sotto la media, ma l'Irlanda?

La crisi in Italia, che vanta il secondo settore manifatturiero d'Europa, o il recente allargamento dello spread sui titoli di Stato francesi, di sicuro non sono eventi che si possono liquidare con tanta facilità.

Adesso, perciò, anche i tedeschi hanno dovuto rassegnarsi all'idea che i problemi della zona euro sono problemi di sistema. Le divergenze in termini di competitività e situazione dei conti pubblici all'interno dell'Unione monetaria non sono soltanto il risultato dei vizi della periferia contrapposti alle virtù della Germania, ma anche l'inevitabile conseguenza di shock asimmetrici, diversità delle strutture economiche e differenze storiche nel funzionamento del mercato del lavoro e dei mercati dei prodotti. Come riconosciuto da più parti, i problemi dell'euro nascono anche dalla furia esportatrice del "made in Germany". La moderazione consumistica e salariale, combinata con gli incrementi di produttività dovuti al progressivo assorbimento e riqualificazione dei lavoratori dei Länder orientali ha contribuito al boom dell'export tedesco. All'impennata delle esportazioni hanno dato una mano l'euro, più debole di quanto non sarebbe stato il marco, il livellamento dei tassi d'interesse e una politica monetaria della Bce che ha supportato l'espansione della domanda nei Paesi della periferia, ma non in Germania.

Ora i leader tedeschi e degli altri Paesi dell'euro si sono resi conto con raccapriccio che per risolvere il problema non bastano rigore e riforme strutturali nella periferia, già imprese ardue di per sé, ma serve anche una trasformazione per cui sono completamente impreparati: un'unione più rigorosa delle politiche di spesa e di bilancio, in sostanza un passo da gigante verso gli Stati Uniti d'Europa.

Alla Germania conviene continuare a sostenere l'euro? Nei calcoli entrano alcuni elementi direttamente quantificabili. Uno dei costi di un'unione dei bilanci sono tassi d'interesse più alti sui titoli di Stato: secondo l'istituto Ifo rappresentano l'1,5-2% del Pil annuo tedesco, molto di più dei contributi che la Germania versa annualmente alla Commissione europea. Soprattutto c'è un'enorme passività eventuale legata alle sue garanzie sul debito dei Paesi della periferia. Nel caso di un default generalizzato, che spazzi via il 30% del debito pubblico della periferia, la quota del conto che dovrebbe accollarsi la Germania sarebbe di circa 400 miliardi, ossia il 16% del suo Pil. Sull'altro piatto della bilancia, il costo di un tracollo dell'euro potrebbe essere una decurtazione di valore del 30% dei titoli di Stato di Paesi della periferia in mano alle banche tedesche, per un valore di 21 miliardi. Ci sarebbe anche una piccola perdita di competitività: per esempio, con una svalutazione del 30% nella periferia, la Germania subirebbe una rivalutazione reale del 3 per cento.

La Germania corre dei rischi in entrambi i casi. Qualcuno si affretterà a sostenere che l'unione dei bilanci rappresenta il rischio maggiore. Ma è fin troppo scontato dire che questi calcoli sono soggetti a un ampio margine d'errore: non tengono conto, per esempio, del rischio di una crisi finanziaria globale che la dissoluzione della zona euro potrebbe comportare. E qualcuno potrebbe sostenere che, unificando le politiche di spesa e di bilancio, la probabilità di un default generalizzato nei Paesi della periferia si approssima allo zero. In definitiva, quindi, la scelta tedesca si dovrà basare su considerazioni di fondo, non su calcoli economici ipotetici e incompleti. Anzi, la considerazione da fare sostanzialmente è una: la Germania vuole portare a termine il progetto europeo e guidare la creazione degli Stati Uniti d'Europa o preferisce un'unione molto meno stretta, come quella che da tempo gradirebbe il Regno Unito?

Sia la Merkel sia il suo ministro dell'Economia dicono di aver già fatto la loro scelta. Hanno dichiarato ripetutamente il loro incrollabile impegno in favore dell'euro e hanno detto che vogliono un'unione più stretta, non meno stretta. Ma hanno anche sottolineato con forza che un'unione delle politiche di spesa e di bilancio non deve far venir meno gli incentivi alle riforme per i Paesi della periferia, e hanno detto anche che è necessario il consenso esplicito dei cittadini tedeschi. Come si possono conciliare queste condizioni assolutamente ragionevoli con l'impazienza dei mercati?

Un "acconto" simultaneo, sia sul fronte dell'unione dei bilanci che su quello delle riforme nei Paesi della periferia, potrebbe essere la risposta. Un elemento di questo "acconto" potrebbe essere la proposta di emettere eurobond per un valore pari, ad esempio, a metà del rifinanziamento del debito di tutti i Paesi della zona euro (circa 850 miliardi all'anno), con garanzie proporzionali alle rispettive esigenze, oppure eurobond assortiti di garanzie reali, come nella proposta Prodi-Quadrio Curzio e di altri. L'altra parte dell'"acconto" potrebbe essere l'impegno dei Paesi della zona euro a sottomettersi a una nuova disciplina di bilancio, che includa l'inserimento in Costituzione dell'obbligo del pareggio di bilancio. La quota del fabbisogno finanziario coperta dagli eurobond potrebbe crescere con il tempo, via via che s'introducono le riforme. I mercati pretenderanno presto di sapere che cosa ha scelto la Germania.

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