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Questo articolo è stato pubblicato il 17 settembre 2011 alle ore 12:00.
L'ultima modifica è del 17 settembre 2011 alle ore 08:10.

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Perché mai la Germania e gli altri Paesi virtuosi dovrebbero aiutare senza troppe esitazioni i Governi europei in difficoltà? Semplicemente perché l'alternativa è pagare un conto ben più salato. I tedeschi sono ormai nell'angolo: o salvano l'euro, e quindi se stessi, oppure subiranno delle perdite ingenti. C'è già chi calcola l'onere per la Germania di uscire dall'area euro in otto volte il costo che sopporterebbe se salvasse Grecia, Irlanda e Portogallo tutte assieme.

La crisi dei debiti sovrani avrebbe una soluzione semplice se ci fosse un prestatore di ultima istanza con fondi quasi illimitati. Nell'area euro, la Bce è un ovvio candidato per questo ruolo. Nel caso di un Paese insolvente, come ormai è la Grecia, il prestatore di ultima istanza dovrebbe ripagare i creditori accollandosi le perdite e perdonando parte del debito greco. Una banca centrale lo può fare in quanto è un intermediario speciale, operativo anche con capitale negativo. Infatti è in grado di creare a piacere le sue passività, cioè moneta.

Nel caso di un Paese come l'Italia sotto attacco di fiducia, cioè solvente a tassi normali ma insolvente a tassi elevati, il prestatore di ultima istanza dovrebbe spegnere l'incendio offrendo adeguate garanzie, anche con acquisti massicci di debito sovrano. Se mettessimo Grecia, Irlanda e Portogallo nel gruppo degli insolventi, al 60%, e considerassimo Italia e Spagna come solventi, il salvataggio non supererebbe i 400 miliardi di euro. Se si includesse anche una parziale insolvenza di Italia e Spagna, al 30%, le perdite totali, spalmate su più anni, sarebbero inferiori a 1.200 miliardi.

Ci sono delle naturali obiezioni alla soluzione appena descritta. La prima riguarda l'obiettivo della stabilità dei prezzi della Bce. Non si creerebbe quindi inflazione? Sì, se la liquidità addizionale entrasse in circolo. Ma per questo problema la Bce ha fortunatamente attrezzi a sua disposizione: alzare il tasso d'interesse sulle riserve bancarie e agire con operazioni dirette di ritiro della liquidità. Willelm Buiter, capo-economista di Citibank, ha stimato che la Bce potrebbe acquistare titoli fino a 3.000 miliardi senza minacciare il suo obiettivo d'inflazione.

Una seconda obiezione riguarda il ruolo anomalo della Bce nel trasferire o distribuire risorse fra i Paesi, un ruolo che spetterebbe alla politica fiscale. Ma la Bce non è nuova a operazioni di questo tipo. Non ha creato troppo scandalo né causato alcuna dimissione quando, nel pieno della crisi finanziaria americana, è intervenuta nel mercato dei covered bond per soccorrere le banche francesi e soprattutto tedesche. Addirittura, si può anche argomentare che la Bce fa sempre della politica fiscale, anche quando decide sui tassi d'interesse. In un'area euro così eterogenea, un unico tasso d'interesse nominale insieme a una diversità di tassi d'inflazione fra Paesi, implica una varietà di tassi reali, e quindi la possibilità che alcune economie siano in espansione e altre in recessione.

A questo proposito bisogna ricordare la gestione di politica monetaria negli anni 2002-2006 quando i tassi d'interesse erano relativamente bassi. In quell'episodio molti hanno visto l'origine di questa crisi dei debiti europei. In effetti, allora gli occhi della Bce non erano solo puntati sull'inflazione della periferia, dove le varie tigri europee crescevano velocemente facendo anche leva sul debito, chi privato e chi pubblico. Preoccupava di più la profonda stagnazione della locomotiva tedesca. Con tassi d'interesse più alti, l'indebitamento della periferia sarebbe diminuito, e forse oggi avremmo scongiurato la crisi. Ma allo stesso tempo l'economia tedesca avrebbe pagato il costo di un prolungato letargo, e oggi non sarebbe così in forma. Anche questa è politica fiscale.
Infine, l'ultima obiezione contro garanzie illimitate ha a che vedere con la possibilità che si creino incentivi distorti, se banche e governi non dovessero imparare le rispettive lezioni. Le prime nel non prendere rischi eccessivi, le seconde nel disciplinare i propri bilanci. Quest'ultimo timore giustifica appunto il tira e molla sia della Bce con i Paesi in difficoltà, sia dei governi virtuosi con la Grecia. Alle banche invece, ci ha pensato sin dall'inizio Angela Merkel con il principio di accollare ai privati parte delle perdite sui debiti sovrani.

Per quanto sia giusto correggere gli incentivi, bisogna farlo con molta cautela perché altrimenti si apre il vaso di pandora. Da perdite che potrebbero rimanere circoscritte al bilancio speciale del prestatore di ultima istanza, si passa a perdite che rimbalzano dalle banche agli altri intermediari, fino a colpire i bilanci delle famiglie, l'economia reale, le imprese con una spirale che si autoalimenta. In questo scenario è improbabile evitare default disordinati. Per dare un'idea di come sia rischioso percorrere questi territori basta considerare che dall'inizio dell'anno le borse europee, anche per la profonda incertezza sulla soluzione della crisi dei debiti sovrani, hanno bruciato circa 1.000 miliardi.

Il dilemma fra garanzie e incentivi ci terrà con il fiato sospeso nei prossimi giorni e in particolare nei prossimi 15 in cui la Grecia deve convincere l'Europa. L'importante è che a qualcuno non venga in mente di togliere dal gioco l'unico prestatore di ultima istanza che abbiamo.

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