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Questo articolo è stato pubblicato il 19 settembre 2011 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 19 settembre 2011 alle ore 06:37.

«Fino alla data di entrata in vigore delle nuove tariffe d'estimo». Nella migliore tradizione del provvisorio promosso a permanente, la norma che quindici anni fa ha introdotto la rivalutazione del 5% delle rendite catastali preannunciava la riforma degli estimi. Riforma mai arrivata, ovviamente. Risultato: oggi gli immobili continuano a essere tassati con le tariffe entrate in vigore nel 1992, basate di fatto sui valori di mercato del 1988.

Un'era geologica fa, per l'andamento delle quotazioni immobiliari.
Oggi che rispunta l'ipotesi di una rivalutazione delle rendite, la storia rischia di ripetersi. Tecnicamente, nulla vieta di incrementare la quota di aggiornamento. Non bisogna dimenticare, però, la vicenda delle rendite lanciate nel 1963 – quando erano già vecchie di un decennio – e innalzate per quasi trent'anni con percentuali via via crescenti, nel tentativo di tenere il passo dell'inflazione. Di fatto, correggere tutti i valori allo stesso modo significa replicare le ingiustizie implicite nelle rendite catastali. E questo in qualche modo è già successo: basti pensare che nel 1994 l'Ici media era al 5,1 per mille, mentre oggi è al 6,4.

La conseguenza è che in tante città ci sono case degli anni Venti accatastate come ultrapopolari, che nel frattempo si sono trasformate in abitazioni di pregio, ma continuano a pagare poche decine di euro all'anno di Ici. A Roma, per esempio, uno stesso alloggio di 75 metri quadrati in zona semicentrale può pagare da 290 a 1.120 euro di Ici, a seconda che sia accatastato come A/5 (ultrapopolare) o A/2 (civile). E poi ci sono i proprietari che hanno aggiunto un secondo bagno o hanno ristrutturato le proprie abitazioni evitando di aggiornare le rendite. Senza tralasciare tutte quelle abitazioni che hanno beneficiato di una fortissima rivalutazione dei prezzi – si pensi alle zone ex industriali – e continuano a pagare le tasse in base ai vecchi valori.

Da più di sei anni, i Comuni hanno uno strumento forte: possono chiedere all'agenzia del Territorio di rivedere i valori di intere "microzone" (quartieri) o di aggiornare la rendita in base alle variazioni edilizie risultanti ai loro uffici. Se c'è stata una ristrutturazione, il Territorio viene informato e cambia categoria e classe catastale e quindi anche la rendita.
Ma poche centinaia di Comuni lo hanno fatto, nonostante fosse un evidente atto di equità fiscale.
Certo, ad aumentare la percentuale di rivalutazione si fa in fretta, mentre il controllo su singole case e microzone richiede almeno un paio d'anni e una seria riforma degli estimi almeno «quattro o cinque anni», come ripetono spesso i funzionari dell'agenzia del Territorio.

Solo quest'ultima soluzione, però, darebbe risposta a due esigenze di fondo: la giustizia fiscale sugli immobili e la trasparenza. Per ora i Comuni hanno dormito sonni tranquilli ma un aumento percentuale uguale per tutti finirebbe con il premiare proprio chi non ha segnalato al catasto le variazioni.

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