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Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2011 alle ore 08:23.
L'ultima modifica è del 20 ottobre 2011 alle ore 08:56.

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Se si rompe la tela della coesione sociale non è alle viste un possibile rammendo con la tenuta della dialettica politica. Finora i rappresentanti dei corpi intermedi, la società insomma, hanno fornito la supplenza "unitaria" a una politica prima devastata da tangentopoli, poi, a fasi alterne, incapace di esprimere linee strategiche e veri contenuti riformisti. Il contrario – viste le condizioni della discussione tra partiti, dentro e tra, gli schieramenti – non è possibile: non saranno maggioranza e opposizione a poter supplire a strappi sociali.

Insieme alla straordinaria laboriosità della sua gente, all'inventiva, alla capacità di esportare, alla caparbia volontà di risparmio e a riserve auree che sono le quarte al mondo, l'Italia ha sempre avuto come asset la coesione sociale. Anche nei momenti più aspri della storia recente dal terrorismo anni 70 alla difficile fase delle leggi sulla flessibilità del lavoro, le divisioni tra chi rappresenta gli interessi del capitale e del lavoro si sono sempre composti. Magari secondo assetti via via cangianti che sono, alla fine, il vero "respiro" della società.

Immaginare un Paese lacerato da piazze infiltrate dal «terrorismo urbano» di cui parla il ministro Roberto Maroni, da imprese contro imprese in una discutibile lotta per la rappresentanza, da sindacati flagellati dalle derive politiche e ideologiche, sarebbe drammatico. E a crisi si aggiungerebbe crisi, chè non c'è nulla di più devastante per la credibilità e la fiducia, già oggi, per i mercati ai minimi storici in Italia.

Il richiamo del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alla difesa della coesione sociale come frutto dell'impegno di ciascuno per la parte che gli compete, non a caso è stato formulato ieri durante la cerimonia dei Cavalieri del Lavoro. «Scusatemi se ripeto il più semplice degli appelli: che ciascuno faccia la sua parte – ha detto Napolitano –. Molto sta facendo il mondo delle imprese anche in senso propositivo, ed è importante.(...). C'è davvero bisogno essenziale di questi apporti, e di quelli del mondo del lavoro: e non può che considerarsi prezioso, ed auspicarsi, il massimo di coesione nel mondo dell'impresa, come nel mondo del lavoro».

Al Governo – dice in sostanza il presidente della Repubblica – compete allestire prima possibile le misure per la crescita, strumento prezioso di coesione sociale e di indirizzo unitario per un Paese in cerca di una direzione, di un'idea di futuro che è anche una speranza. E le liti furibonde che si consumano in queste ore tra ministri non sembrano la migliore risposta.

Ma un ruolo forte spetta anche a impresa e lavoro. Non sono mancate, del resto, anche in quest'ultimo periodo, scelte clamorose che hanno riguardato l'assetto della rappresentanza delle industrie italiane, con la polemica scelta della Fiat di lasciare la Confindustria. L'importante è che anche questo capitolo si chiuda in modo razionale, senza lasciare nell'aria la pioggia acida di schermaglie infinite.

Non si va ultra petita se si pensa che il Capo dello Stato abbia voluto segnalare il valore dell'unità di intenti a chi, tra gli imprenditori, sembra, in questa fase, non particolarmente sensibile al tema.

Le mani libere per la rappresentanza datoriale - situazione in cui si trova ora la Fiat - possono portare a un nuovo contratto di categoria, ma è inutile che inducano a una dialettica infinita su chi rappresenti chi o su chi faccia o meno politica.

Il new deal della Fiat, che l'abilità di Marchionne ha condotto a diventare una multinazionale con testa (e forse cuore) negli Usa, qui in Italia ha innescato i rischi di un serio conflitto sociale che può spaccare i sindacati, faticosamente riavvicinati a posizioni unitarie dopo il difficile lavoro diplomatico che aveva portato alla firma dell'intesa interconfederale del 28 giugno.

Il gioco a rimpiattino con i mercati, i sindacati, gli investitori su quali siano i modelli che la Fiat intende produrre in Italia rischia di non essere capito. È un'azienda globale ma prima o poi l'auto da vendere va pensata, studiata, prodotta e "comunicata" a chi la deve fabbricare e a chi la deve comprare. Forse è anche per questo che il titolo Fiat è finito nel mirino delle agenzie di rating che lo hanno ribassato a quota «BB» con previsione negativa.

E l'atteggiamento sprezzante verso i diversi soggetti coinvolti rischia di dare benzina – come ha dato ieri – a chi sta organizzando lo sciopero di domani e, ancora una volta, spezza la tela paziente di chi, come Susanna Camusso, sta tentando di riportare su approdi meno massimalisti una intera federazione di categoria da sempre simbolo del conflitto-per-il-conflitto. È una «very, very, very bad idea» quello sciopero, come ha detto Marchionne. È vero: è una cattivissima idea. La coesione sociale sarebbe «very good», ma in troppi cercano di incrinarla.

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