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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2011 alle ore 21:26.

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Un Piano Marshall per Tunisi e Il Cairo. Nella foto una donna al voto in un seggio elettorale a Tunisi (Reuters)Un Piano Marshall per Tunisi e Il Cairo. Nella foto una donna al voto in un seggio elettorale a Tunisi (Reuters)

MAR MORTO – GIORDANIA. «Fino al 2008 i nostri amici europei ci ammonivano su come usavamo i nostri fondi sovrani: temevano volessimo comprare la loro economia, ci parlavano di asset strategici. Ora ci chiedono di aiutare le loro banche». Hamad bin Jassim bin Jabr al Thani è un diplomatico di professione, sa nascondere la soddisfazione. Premier, ministro degli Esteri e Ceo del fondo sovrano del Qatar: Hamad al Thani è la mente dell'eccezionalismo politico ed economico del piccolo emirato.

In questo primo World Economic Forum mediorientale dopo l'inizio delle Primavere arabe, il tema principale è come sostenere le democrazie che faticosamente stanno nascendo. «Crescita economica e creazione del lavoro nel mondo arabo», è il tema. Entro 10 anni la regione deve creare 85 milioni di posti di lavoro. Per aiutare i Paesi del Nord Africa impegnati nel difficile camino delle riforme politiche, qui sul Mar Morto si è parlato di un Piano Marshall destinato soprattutto a Tunisia ed Egitto. «A causa dei loro problemi fiscali, Stati Uniti ed Europa non saranno in grado di dare alcun aiuto», dice Ibrahim Dabdoub, presidente di National Bank of Kuwait. «Eventualmente possono darci qualche consiglio su come gestire le nostre finanze. Ma penso che anche in questo è meglio se facciamo da soli».

Le convulsioni europee non potevano essere ignorate dalla parte ricca del mondo arabo, quella petrolifera del Golfo che quest'anno dovrebbe accumulare circa 300 miliardi di dollari solo di surplus energetico. I soldi di questi arabi ricchi non li chiedono solo tunisini ed egiziani, ora li gradiamo anche noi. L'atteggiamento dell'Arabia Felix a Sud dell'Iraq, eccetto lo Yemen, è ambivalente: da quello del Qatar interessato ad approfittare delle buone occasioni offerte dalla crisi europea; all'atteggiamento delle banche saudite che hanno notevolmente ridotto le loro operazioni in Occidente preferendo concentrarsi negli investimenti domestici. Diversamente dagli altri Paesi del Golfo, l'Arabia Saudita non ha un fondo sovrano.

In questi giorni il mensile "The Middle East" ha pubblicato la sua classifica annuale sulle prime 100 banche arabe. Le prime 14 sono le stesse dell'anno precedente ma fra le 100 c'è qualche cambiamento: segno che nel mondo arabo le Primavere hanno avuto qualche effetto economico anche se non proprio di democratizzazione finanziaria. Il Bahrein, piazza bancaria per eccellenza prima delle proteste popolari e delle repressioni, ha perso tre istituti di credito. Dalla classifica sono uscite anche quattro banche iraniane. Non sono arabe ma l'Iran ha sempre fatto parte delle classifiche di "The Middle East". Come sempre le prime tre banche sono la National Commercial Bank saudita con un capitale di 8,3 miliardi di dollari (era di 7,9 l'anno scorso), l'Nbd degli Emirati e la Riyadh Bank ancora dell'Arabia Saudita.

Anche la parte più ricca della regione non è comunque stata fuori dalla crisi occidentale. Ad agosto l'Arabia Saudita aveva registrato il punto più basso in 18 mesi dell'attività manifatturiera e del settore dei servizi. Così anche l'indice degli Emirati. All'aeroporto di Dubai il traffico merci è calato dell'8%. La crescita regionale che quest'anno è stata del 4% è previsto che diminuisca di un paio di punti nel 2012.

Sono segnali comunque utili alla regione per non precipitare di nuovo nella crisi del 2009 quando i sauditi sfuggirono alla recessione solo per uno 0,6 di crescita. Negli Emirati Dubai World era stata costretta a ristrutturare un debito da 25 miliardi. «Questa volta sono meglio preparati, la capacità di affrontare le crisi è migliorata - spiega a Reuters Fabio Scacciavillani, chief economist dell'Oman Investment Fund. Come aggiunge un banchiere degli Emirati - anche noi siamo parte dell'economia globale, non possiamo sfuggire agli effetti della crisi. Ma da noi nel Golfo nessuno parla più di recessione». A meno che il prezzo del barile di petrolio non incominci a precipitare.

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