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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2011 alle ore 10:43.
L'ultima modifica è del 26 ottobre 2011 alle ore 10:43.

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C'è qualcosa di umiliante in un bozzetto sulle pensioni concepito in 24 ore con il solo obiettivo di ottenere il placet dell'Europa, ma talmente blando da incassare il via libera di una Lega decisa a non cedere un millimetro. Ci sono molte strade al riformismo, come ci ha insegnato la storia politica del Novecento: questa è di sicuro la meno efficace. Le riforme servono all'Italia per ritagliarsi un futuro possibile, non perché c'è un Cerbero a Bruxelles (o a Parigi) pronto a mandarci in un qualche girone infernale.
Oggi i mercati finanziari torneranno a esprimere il loro giudizio sull'Italia aderendo o meno all'offerta di BoT a sei mesi per 8,5 miliardi. E venerdì sarà la volta dei BTp a 3 e 10 anni, test ancor più significativo. Il rendimento dei BTp a dieci anni ieri era a 5,95%, appena sotto la quota considerata di rischio del 6 per cento. Il differenziale con i Bund sfiorava di nuovo i 400 punti. Vuol dire che il Tesoro nei prossimi anni dovrà impegnare risorse pubbliche sempre maggiori per finanziare il proprio debito. Ma anche che le banche si finanzieranno a un costo maggiore e, a cascata, gli enti locali e le imprese. Pagheremo tutti di più, dunque, e cresceremo di meno.

Già questo basterebbe a capire perché riforme rigorose servono innanzitutto a noi stessi. Riempire un foglio con impegni blandi, minimo comun denominatore delle esigenze politiche dei partiti di maggioranza, nel goffo tentativo di convincere i partner europei, non risolve nessuno dei nostri problemi. E, alla fine, potrebbe non servire neppure a superare l'esame di Bruxelles. Servono riforme vere, da approvare subito per decreto, in grado di fare insieme crescita e rigore. Sulla previdenza, sul fisco, sulla spesa pubblica, sulle libere professioni. E anche sugli incentivi alle imprese.
Il sistema previdenziale italiano costa troppo (due punti di Pil in più della media europea); è iniquo perché è generoso con le classi di età intorno ai 50-60 anni e avaro con i giovani (oggi si va in pensione a meno di 60 anni con l'80% dello stipendio, in futuro lo si farà oltre i 65 con il 65%); e penalizza l'occupazione e i lavoratori con un livello elevato di contributi in busta paga. Aumentare in tempi rapidi l'età pensionabile (prevedendo eccezioni per chi svolge mansioni usuranti) consentirebbe di ridurre quel peso contributivo, dando ossigeno all'occupazione, garantirebbe un equo riequilibrio generazionale, libererebbe infine - allineandoci alla spesa previdenziale media dei Paesi Ocse - risorse importanti per ridurre il deficit e alimentare la crescita.

Ecco perché le pensioni vanno riformate. Allo stesso modo va ridisegnato il perimetro dello Stato per bloccare la crescita all'infinito della spesa pubblica.
Non tutti lo sanno, ma anche in questo ventennio di risanamento dei conti pubblici la spesa corrente ha continuato a correre. Dal 2000 ad oggi, in particolare, è cresciuta di altri 150 miliardi. Fortunatamente c'è stato l'euro, che ci ha premiato con l'abbattimento del costo degli interessi sul debito. Ma oggi quell'ombrello non funziona più e la riduzione della spesa è diventata una priorità non rinviabile.
In un Paese, poi, che ha livelli record di pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro, e che tassa i patrimoni meno che negli altri Paesi occidentali, qualunque governo dovrebbe senza indugi riequilibrare questo squilibrio paradossale. Non perché ce lo chiede qualcuno, ma per favorire la crescita economica premiando la ricchezza produttiva a discapito di quella statica.

Gli incentivi alle imprese, infine. La Ragioneria li stima in 72 miliardi. Quelli effettivamente erogati alle imprese industriali (parametri Ue) si fermano a 3 miliardi. Riordinare questo settore in modo complessivo, concentrando gli incentivi lì dove servono davvero, permetterebbe di renderli più efficaci ai fini della crescita e, magari, di risparmiare qualche euro.
Rigore, crescita ed equità insieme, dunque. Per l'Italia e gli italiani, non per il presidente Sarkozy o la cancelliera Merkel. Ecco le buone ragioni per fare riforme radicali, non compitini stilati all'ultimo minuto per strappare una finestra temporale utile solo a continuare ad esercitare la propria irresponsabilità. Lo abbiamo imparato sui banchi di scuola: si fanno i compiti per garantirci il futuro, non per soddisfare il giudizio di un padre più o meno severo. Ma qualcuno, ai vertici di questo Paese, sembra aver dimenticato quella lezione.

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