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Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2011 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 07 novembre 2011 alle ore 08:45.

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La politica ha le sue leggi. Ineluttabili. Tra queste ce n'è una che riguarda l'inerzia: può aiutare una maggioranza divisa a sopravvivere alcuni mesi, magari un anno, ma alla lunga corrode le ragioni stesse di un'alleanza di governo. Il motto andreottiano «meglio tirare a campare che tirare le cuoia» ha avuto straordinario successo nell'aneddotica, ma nessuna attinenza con la storia politica italiana. Tirando a campare, gli Esecutivi della prima Repubblica tiravano sistematicamente le cuoia in pochi mesi, quando andava bene in pochissimi anni.

È la malattia di cui Silvio Berlusconi aveva annunciato, oltre un quindicennio fa, il superamento per una nuova era di decisionismo in politica. È invece proprio nell'inerzia che la sua maggioranza e il suo terzo Governo stanno esaurendo la propria vicenda storica.

Per molti osservatori la settimana che si apre è quella decisiva per il Governo. Domani, o al massimo mercoledì, si voterà, per la seconda volta, sul Rendiconto generale dello Stato. Un test implacabile per la tenuta della maggioranza. Difficile che il Governo vada sotto, ma se non raggiungerà – come allo stato appare più che possibile – la maggioranza assoluta dei deputati (quota 315) si aprirebbe inevitabilmente una fase nuova, in cui tutti gli scenari sarebbero possibili.

Risultato paradossale per un'alleanza di Governo, quella tra Lega e Pdl, che a inizio legislatura contava su una delle più straordinarie maggioranze parlamentari del dopoguerra italiano. Una maggioranza che si è consumata mese dopo mese. E non per la scissione finiana o per la stravagante vita privata del premier, ma per la sostanziale incapacità di prendere per le corna i problemi di un Paese che andava affondando.

Prima la scelta conservativa del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti (che pure in una prima fase aveva avuto il merito di tenere in carreggiata il Paese), poi le divergenze interne alla maggioranza tra Lega e Pdl, infine il contrasto diretto tra lo stesso superministro e il presidente del Consiglio: ecco le tappe di una politica economica di fatto sempre più bloccata tra veti e timori di perdere consensi.

È la cronaca ancora di questi giorni. Tra oggi e domani dovrebbe arrivare in Parlamento il testo del maxiemendamento predisposto dal Governo per dare attuazione agli impegni con l'Europa. C'è da sperare in una tardiva presa di coscienza. Ma i testi che circolavano dopo il Consiglio dei ministri di mercoledì scorso sono ancora una volta la fotografia dell'inerzia, della politica della rinuncia.

Rispetto alla lettera inviata a Bruxelles, infatti, mancavano i due punti più qualificanti. E soprattutto più attesi in Europa e sui mercati. La riforma delle pensioni, con l'aumento dell'età per il ritiro di vecchiaia a 67 anni, e la riforma delle regole del mercato del lavoro, con una nuova legislazione sui licenziamenti. Due tasselli giudicati essenziali anche a Francoforte, dove la Bce ha già fatto sapere che non svolgerà ancora a lungo una funzione supplente – attraverso l'acquisto di titoli pubblici – rispetto alle inadempienze della politica italiana.

Manca anche altro. Manca, per esempio, un draconiano spostamento del peso fiscale dal lavoro e dalle imprese verso i patrimoni, verso la ricchezza statica. Manca l'ambizione di spostare sull'Iva il carico delle imposte che oggi grava sul lavoro e sui redditi più bassi. Manca il coraggio di mettere fine una volta per tutte all'ingiustizia generazionale delle pensioni di anzianità.

È possibile che la maggioranza corra ai ripari in extremis inserendo nel maxiemendamento almeno un paio di queste misure? Bisognerà verificarlo in questi giorni. È davvero l'ultima chance. Ma è chiaro che, a questo punto, lo stato di crisi della maggioranza rende l'eventualità difficile.

È la storia che si ripete. La stagione di Bettino Craxi, in fondo, si chiude quando la positiva spinta riformista dei primi anni di governo si esaurisce nell'inerzia degli Esecutivi della seconda metà degli anni 80, che porterà poi alla crisi finanziaria italiana del '92. È nell'inerzia, allo stesso modo, che si va esaurendo l'ambizione del riformismo di Berlusconi. E ancora una volta è una drammatica crisi finanziaria, e non i normali meccanismi di una democrazia parlamentare, che si sta incaricando di scrivere la parola fine.

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