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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2011 alle ore 07:51.
L'ultima modifica è del 22 novembre 2011 alle ore 06:35.

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Alla vigilia della missione europea di Mario Monti, la crisi dell'euro si allarga avvitandosi sempre più pericolosamente su se stessa. Ancora una giornata di passione per gli spread dei titoli di Stato italiani, francesi e spagnoli rispetto al Bund. Nemmeno la prospettiva del baratro riesce però ad attenuare gli opposti estremismi in campo.

Ancora ieri José Barroso, il presidente della Commissione Ue, ha insistito sulla carta degli eurobond per tagliare le gambe alla speculazione. Ma la Germania della Merkel ha ribadito il suo no irremovibile alla «collettivizzazione del debito», almeno fino a quando non ci sarà convergenza tra i bilanci dell'area. E la Francia, di fronte alla prospettiva sempre più concreta di perdere la tripla A, ha mandato a dire, per bocca del portavoce del Governo, che certo non sarà l'aumento dei costi del credito a indurla a varare un nuovo pacchetto di rigore.
L'attacco dei mercati ormai colpisce al cuore la moneta unica, che comincia ad accusare un male nuovo e insieme antico: la sindrome francese, il caparbio ribellismo di Parigi che respinge le cure da cavallo di rigore e riforme che invece dilagano da Atene a Lisbona fino a Dublino.

E presto investiranno Roma e Madrid, avverte il commissario europeo, Olli Rehn.
L'Italia da tempo ha recepito il messaggio. Tra oggi e giovedì, il nuovo capo del Governo sarà in Europa per esporre il suo programma di tagli, tasse e riforme strutturali per far ripartire lo sviluppo economico intorpidito e calmierare i mercati. Per risollevare le sorti del Paese nel segno del recupero di stabilità e credibilità, ponendo così anche le basi del suo rilancio nel consesso dei Grandi. L'incontro di dopodomani a Strasburgo con il cancelliere Merkel e il presidente Sarkozy risponde a questa dichiarata ambizione.
Fine del direttorio franco-tedesco, sgradito ai più. Debutto felpato di un governo a tre con rientro nel gioco dell'Italia. O forse a quattro, con la nuova Spagna di Rajoy decisa a «a essere parte della soluzione e non più solo del problema».

Il disegno di Monti è chiaro: sacrifici anche duri perché ineludibili, a prescindere dall'emergenza euro, per rimettere l'Italia sui binari di una crescita solida e duratura. In cambio la gratificazione politica di un recupero di protagonismo, in definitiva di corresponsabilità nella definizione del cantiere della nuova Europa in gestazione.
Mission impossible? No. Nell'eurozona e nell'Unione dove la confusione continua a regnare sovrana, oltre a troppi rischi si aprono anche molte opportunità negli equilibri di potere. A patto, va da sé, che gli impegni su rigore e riforme siano poi seguiti dai fatti. Senza ambiguità né dilazioni infinite. Altrimenti in un'Europa sempre meno tollerante verso i Paesi divergenti e indisciplinati e invece sempre più incline a comminare pesanti sanzioni e castighi, un eventuale "tradimento" italiano dopo la promessa di un ritorno all'ovile potrebbe costarci carissimo.

E sarebbe un gran peccato, un'opportunità sprecata. Di questi tempi l'Europa è estremamente "liquida", alla ricerca di un nuovo modello di istituzioni e politiche comuni, di una convivenza migliore. L'emergenza dell'ultimo biennio ha dimostrato che i rifiuti indefettibili di oggi, prima di tutto tedeschi, possono ribaltarsi in consensi domani. Per ragioni di forza maggiore, di nuova consapevolezza sull'assenza di credibili alternative.
La partita degli eurobond, di un nuovo ruolo della Bce elevata a prestatore di ultima istanza verso gli Stati e non solo verso le banche, non è chiusa ma in stand-by. In attesa di una nuova governance europea molto più integrata, di politiche di bilancio più omogenee, di conti pubblici molto più virtuosi. Quando il traguardo sarà raggiunto, la garanzia comune sul debito dell'area non sarà più anatema ma la logica evoluzione delle cose. I tedeschi lo sottintendono dietro il loro no, la proposta Barroso lo dice chiaro. Dunque i contrasti sono solo apparenti.

Con la Francia invece la contrapposizione è frontale. Sarkozy, con le presidenziali alle porte, non è disposto a tagliarsi le gambe con giri di vite troppo stringenti. Men che meno a mettere il suo Paese sotto tutela "euro-tedesca". Da qui alle urne di maggio, se i mercati non demordessero, anche i suoi no diventerebbero insostenibili. A quel punto per l'euro e i suoi soci, Merkel in primis, arriverebbe davvero il momento della verità. Dei cedimenti inevitabili. Sì, ma quali? Se è vero, come è vero, che alla Germania un eventuale ritorno al marco costerebbe di gran lunga di più della difesa dell'euro, la risposta è implicita. Ma non è scontata da parte francese, se eventuali aiuti fossero come per tutti sottoposti a pesanti condizioni. La Francia è la stessa che bocciò l'Europa della difesa prima, e poi la Costituzione europea.

Anche per questo l'Italia deve fare fino in fondo la sua parte riducendo al minimo i rischi che altrimenti graverebbero sul suo futuro. Più che dal sollievo per i ritrovati margini di manovra (per ora sulla carta) del Governo italiano, gli incontri di Monti a Strasburgo rischiano però di essere funestati dall'ombra lunga dell'insidiosa equazione francese.

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