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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2011 alle ore 14:25.

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Esiste davvero un «piano B» delle banche in caso di implosione dell'euro e di ritorno alle valute locali di un tempo? In questi ultimi giorni, insieme all'aumento delle tensioni attorno alle sorti dell'Unione monetaria europea, circolano le voci più disparate: istituti di credito che iniziano a elaborare contabilità separate sulla base delle vecchie monete; listini prezzi in dracme greche o lire italiane; persino fantomatiche zecche che in gran segreto starebbero ristampando marchi tedeschi pronti per ogni evenienza.

L'unica certezza, al di là del fiorire di leggende metropolitane, è che tutto il mondo sta prendendo coscienza di uno scenario che fino a qualche mese fa pareva impensabile. Oggi l'ipotesi resta probabilmente ancora remota, ma non così impossibile, tanto che gli analisti delle banche d'affari iniziano a prestarvi attenzione e a includere nel loro ventaglio di ipotesi sul futuro. Credit Suisse, per esempio, assegna una probabilità fino al 10% a uno scenario di disgregazione dell'euro e fa riferimento non tanto alle tensioni sui mercati di questi giorni (il rialzo in massa dei rendimenti dei titoli di Stato, il flop dell'asta dei Bund tedeschi), quanto alle mosse che si iniziano a intravedere nel sottobosco della politica: la destra olandese che nomina una commissione indipendente per studiare l'eventuale ritorno al fiorino o la mozione con cui la Cdu tedesca ha aperto alla possibilità per i Paesi di abbandonare l'euro in modo «volontario». Non sono del resto gli unici a includere scenari per certi aspetti catastrofici nei propri report: negli ultimi giorni lo hanno fatto anche Merill Lynch, Nomura e Barclays Capital (che però cita un sondaggio condotto fra un migliaio di propri clienti) e vi sono altre banche che stanno effettuando in queste settimane una sorta di stress test in caso di «spezzatino» valutario.

Una delle principali obiezioni che vengono opposte all'ipotesi di un ritorno alle valute nazionali è d'altra parte il prezzo enorme che il sistema finanziario europeo si troverebbe a pagare. Sempre Credit Suisse calcola che il solo impatto diretto sulla Bce e sulle banche del Vecchio Continente (entrambe con i portafogli pieni di titoli sovrani) possa aggirarsi sui 600 miliardi di euro: anche senza considerare i costi indiretti si tratterebbe di una somma molto vicina a quella necessaria per «salvare» Italia e Spagna (che peraltro in questo momento hanno problemi di liquidità e non di solvibilità) e quindi l'eurosistema. Ma non si tratta dell'unico paradosso, perché se si prendono aggregati quali la bilancia corrente, il debito pubblico o il deficit in rapporto sul Pil la situazione Europea non è nel suo complesso certo peggiore rispetto a quella di Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il problema è evidentemente un altro, ed è ormai arcinoto: la mancanza di una politica fiscale comune europea, un impasse sul quale il mercato sta costruendo sottotraccia da alcuni mesi a questa parte l'attacco all'euro. Sotto questo aspetto sono pochi i passi in avanti di questi giorni: le discussioni sulle diverse soluzioni per mettere un freno alla deriva del debito – dall'Eurobond all'allargamento dell'Efsf passando per l'intervento della Bce attraverso il Fondo monetario internazionale) proseguono in modo sterile.

Così come sembra destinata a un vicolo cieco (per la decisa opposizione della Germania) l'ipotesi che la Bce diventi il «prestatore di ultima istanza» rendendo illimitati i riacquisti di titoli di Stato sul mercato secondario (e quindi, di fatto, stampando moneta). Per gli analisti, l'istituto centrale guidato da Mario Draghi si prepara ad abbassare di nuovo i tassi di interesse per riportarli all'1% già nella riunione dell'8 dicembre, ma potrebbe non fermare lì la corsa.
Jp Morgan, Barclays Capital e altre banche d'affari pensano che nei primi mesi del 2012 la Bce possa infrangere al ribasso il «tabù» dell'1% e portare così il costo del denaro fino allo 0,5%. Questo significherebbe ridurre anche (possibilmente fino a zero) la remunerazione per i fondi che sono depositati presso di lei, un incentivo per le banche a rimettere in circolo il denaro e a non lasciarlo parcheggiato. Non è proprio il «bazooka» che si attende il mercato, ma è forse un altro piccolo passo verso l'eccesso di dogmatismo del quale l'Eurotower viene accusata.

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