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Questo articolo è stato pubblicato il 15 dicembre 2011 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 15 dicembre 2011 alle ore 08:17.

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La contraddizione è molto italiana. Da un lato il Parlamento vota la fiducia al Governo Monti sulla manovra economica; dall'altro si prende atto che la luna di miele con i "tecnici" è in sostanza finita. Il palazzo è insofferente. A dire il vero, lo è più dell'opinione pubblica che invece mostra un notevole senso di responsabilità, considerando l'entità non proprio lieve delle misure di risanamento. Comunque sia, nel momento in cui votano la fiducia perché non possono farne a meno, le grandi forze lasciano emergere i loro malumori e i loro distinguo.

Da Bersani a Berlusconi, con l'eccezione di Casini. Così si rischia di creare quella tipica situazione per cui l'esecutivo resta in carica non per la sua forza, ma per la sua debolezza. Condannato a battere le ali senza riuscire a prendere davvero il volo. Un "governo amico" secondo la formula più deleteria in uso nella vecchia Prima Repubblica. Diciamo subito che un simile andazzo sarebbe pericoloso per il Paese e per le istituzioni.
Ieri, per fare un esempio, il Senato ha assistito a una gazzarra indecente organizzata dalla Lega. Qualcosa che non ha nulla a che fare con i sacrosanti diritti dell'opposizione e molto invece con la volontà di dileggiare il Parlamento, eccitando una base elettorale vogliosa di rivedere il Carroccio de-berlusconizzato andare all'assalto.

Di fronte a questo scenario, le forze che votano la fiducia (Pdl, Pd e Udc/terzo polo) hanno due scelte. Possono sommergere Monti di critiche - alcune giuste -, riservandogli un sostegno sempre più avaro. Oppure possono decidere di appoggiarlo con maggiore vigore, dunque con più intensità politica: proprio per difendere il premier (e il Parlamento) dagli oltraggi.
La prima scelta è la più comoda, anche perché Monti qualche critica se l'è meritata. Ad esempio la faccenda dei "due tempi": era proprio inevitabile sdoppiare la manovra, prima le tasse e solo in seguito i provvedimenti per la crescita (liberalizzazioni, mercato del lavoro, magari le frequenze tv che non è consigliabile regalare a Rai e Mediaset)? Aver accentuato i rischi depressivi impliciti nella prima parte della manovra, nonostante alcuni opportuni correttivi, rinviando a dopo gli interventi per spingere l'economia, è sembrata un'astuzia per guadagnare tempo.

Oppure una confessione d'impotenza. In ogni caso, un gioco di prestigio che non ti aspetteresti dai "tecnici".
L'argomento è suggestivo, ma non del tutto convincente. Parliamo di un esecutivo nato da meno di un mese, che ha dovuto fronteggiare un disastro reale. Si dirà: ma la borsa continua a calare, mentre i famosi "spread" volano come ai tempi di Berlusconi. Eppure tutti sanno, a cominciare dai politici, che in Europa avremo l'inversione di rotta solo se e quando la Germania sosterrà con decisione una politica d'integrazione, accettando l'idea che i Paesi del fronte meridionale vanno aiutati.
A certe condizioni, naturalmente, che poi sono quelle realizzate dal Governo Monti nelle sue prime settimane. Se viceversa la Germania non si muove, la nostra ritrovata virtù non darà i risultati sperati. Sembra che le Borse lo abbiano capito e quindi infieriscono.

Del resto, qual è l'alternativa? Non c'è, a meno di voler precipitare nel caos. I capi dei partiti possono prendere un'aria malmostosa e dichiarare che loro, al posto del premier, farebbero di più e meglio. Peccato però che le esperienze di governo dell'ultimo decennio, centrodestra o centrosinistra, non siano ricordate con rimpianto. Qualcosa vorrà dire. Tanto è vero che i mugugni non anticipano alcuna rottura del fragile, ma inevitabile asse su cui si regge Monti. Sono mugugni e basta: non producono la caduta dell'esecutivo, ma possono indurlo a vivacchiare, effetto ancora più pernicioso.

Al contrario, un appoggio più esplicito e coerente da parte di Pdl, Pd e terzo polo può servire a mettere fuori gioco la Lega e magari a recuperare Di Pietro. Appoggio vuol dire stimolare Monti sulla via delle liberalizzazioni. Compreso il mercato del lavoro. Sfidando su questo terreno, che è quello della cultura di governo, un Partito Democratico ancora troppo ambiguo (e non parliamo delle ambiguità della destra di Berlusconi-Alfano). In definitiva, il destino è ancora saldamente nelle mani del presidente del Consiglio. Che però deve sfuggire alla tentazione di usare l'armamentario tattico dei vecchi politici che vogliono soprattutto "durare". Raggiungere l'approdo del 2013 attraverso una strategia furbesca di "stop and go".

Il Governo tecnico dura se va avanti con determinazione. Le forze politiche avrebbero molte difficoltà a far inciampare una compagine che opera bene e fa le riforme. Sarebbe più semplice per loro affossare un esecutivo che si è incartato da solo per eccesso di timidezza. I "due tempi" possono, sì, essere un obbligo imposto dalle circostanze. Ma in questo caso il Governo dovrà dare segnali luminosi fin dai prossimi giorni. Natale o non Natale. E tra i segnali ci sono anche misure incisive contro i costi della politica. Deludere l'opinione pubblica, soprattutto quella più capace di sopportare i sacrifici, rischia di essere un errore fatale.

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