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Questo articolo è stato pubblicato il 16 dicembre 2011 alle ore 08:15.

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La cambiale della crescita va pagata. L'«Italia in scadenza» – quella che ha prolungato cassa integrazione e mobilità grazie all'uso dei fondi Fas, le rate dei mutui grazie alle moratorie, i pagamenti pubblici e privati con dilazioni ormai insostenibili – non può permettersi di ridurre ulteriormente la sua base produttiva e l'occupazione. Né può permettersi un'altra manovra all'inseguimento di spread di nuovo vicini alla pericolosa quota 500. La pressione fiscale sull'Italia degli onesti è ormai al 54% come ha segnalato ieri con comprensibile allarme il Centro Studi Confindustria. È il momento di puntare tutto sullo sviluppo: per ritrovare il lavoro, per rilanciare l'industria e la ricerca, per superare il dualismo Nord Sud (che si è allargato), per liberare energie in mercati ancora sconosciuti perché monopolisti.

Tra Scilla e Cariddi, recessione e vincolo di bilancio, è l'Europa la soluzione vera al male di questo scorcio di anno. E oscilla tra gli eurobond per finanziare progetti di sviluppo e un ruolo potenziato della Bce a sostegno della liquidità di Eurolandia. Ma, più in piccolo, è sempre l'Europa che consente di sbloccare e ricollocare i fondi regionali da destinare a investimenti "scontabili" rispetto al patto di stabilità, come sarà possibile da oggi, grazie all'intesa raggiunta ieri tra Governo e regioni del Sud che vale 3 miliardi.

L'Italia ha fatto i compiti a casa che partner sempre più occhiuti ci avevano suggerito prima e imposto poi. Ora è più forte anche nel consesso Ue e può, con ragione, chiedere soluzioni più articolate per coniugare rigore e sviluppo. Una di queste – ed è già scritta nero su bianco nell'accordo raggiunto al Consiglio d'Europa – è la possibilità di considerare i deficit al netto della correzione del ciclo economico. È all'interno di questa cornice che l'Italia può ora sfruttare al meglio il suo potenziale di energia economica e di crescita. La scelta di interventi non banali, nelle quantità, sull'Irap; la velocizzazione di alcuni investimenti infrastrutturali; il rilancio dell'agenda digitale; le liberalizzazioni degli orari dei negozi; la possibilità per l'antitrust di intervenire sulle scelte delle amministrazioni locali in tema di mercato dei servizi pubblici sono altrettanti segnali pro crescita. Ma per correggere le aspettative dei mercati e per ridare ossigeno al tessuto economico occorrono altri segnali. Forti e chiari. Anche perché, se non arrivano, l'effetto rimbalzo sulle aspettative può essere molto pericoloso.

Il premier Monti ha fatto bene ieri a confermare la sua «tenacia» nel perseguire la strategia in tema di liberalizzazioni. Ma per essere credibile deve trasformare il 2012 nel vero anno dell'apertura dei mercati: non solo per taxi e farmacie, ma anche per i servizi locali (e qui sono stati fatti già passi avanti), per molti dei servizi in concessione, per le professioni. Il Parlamento ha frenato e tende a temporeggiare e ciò si traduce in un costo, perché i mercati lo sanzionano con lo spread alto e dunque con maggiori oneri per gli interessi sul debito italiano. Serve tenacia, appunto. Nell'«anno perso» della recessione le liberalizzazioni saranno le uniche riforme a costo zero. Costo zero e guadagno netto per tutto il Paese.

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