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Questo articolo è stato pubblicato il 17 dicembre 2011 alle ore 09:53.
Prima temuta, poi scongiurata la "double dip recession" è alla fine arrivata e, come già nel 2008-2009, colpisce duramente l'Italia più ancora che altri Paesi. Secondo Confindustria nel 2012 il Pil dell'Italia calerà dell'1,6%, bruciando in pochi mesi gli asfittici recuperi ottenuti in ben tre anni. Fra qualche mese il nostro Pil si riporterà allo stesso livello del minimo raggiunto dopo quella che è stata denominata la Grande Recessione: oltre 6 punti e mezzo sotto il livello pre-crisi. Non è una previsione interessata, perché altri centri (Goldman Sachs, Citicorp e Deutsche Bank) hanno nei giorni scorsi prodotto stime analoghe. Potrebbe invece essere questo il miglior scenario oggi prevedibile. È verosimile infatti che il calo dell'1,6% sia una sottostima. Per diverse ragioni.
Primo, perché si tende a fare previsioni estrapolando dai dati passati e in fase di discesa del Pil questo produce una sottostima della caduta. A novembre del 2008 – quando si era già in piena recessione – si prevedeva un calo del Pil nel 2009 dello 0,5%; bisogna arrivare ad aprile del 2009 perché la previsione per quell'anno sia vicina al numero vero: -5,1%.
Secondo, perché, dopo due anni di stagnazione, le famiglie hanno oggi molto meno risparmio accantonato per far fronte alla massiccia incertezza che le circonda, amplificando l'effetto di quest'ultima sulla domanda. La ricchezza l'hanno già usata per sostenere il livello abituale dei consumi e quella rimasta è stata falcidiata dalle perdite di valore dei titoli del debito pubblico e delle obbligazioni bancarie. Lo stesso ragionamento vale per le imprese, soprattutto quelle più piccole che contano sui risparmi familiari come fonte di finanziamento. Ignorare questo effetto, come si fa nelle previsioni, sottostima il calo del reddito. Valutarne l'entità è difficile (per questo viene ignorato) ma essa dipende dalla dimensione dell'incertezza e oggi la volatilità nei mercati è dello stesso ordine di grandezza di quella osservata prima del fallimento di Lehman Brothers: il picco storico degli ultimi 40 anni.
La terza ragione – la più importante – è che queste previsioni si basano, e non potrebbe essere altrimenti, sull'ipotesi che non si cada nel baratro: che si trovi una soluzione alla crisi dei debiti sovrani e quindi della moneta unica, che pertanto ritorni la calma sui mercati, che scompaia la sfiducia e che – per quanto ci riguarda – gli spread rientrino su livelli normali.
Ma lo scenario alternativo non può essere scartato. La probabilità è piccola, ma non più trascurabile; le conseguenze drammatiche. Nessuno sa quanto, anche se iniziano a circolare valutazioni molto allarmanti.
Le prospettive che abbiamo di fronte vedono due regimi: uno in cui si affronta una nuova dura recessione e una lentissima ripresa. L'altro in cui la Grande Recessione si trasforma in depressione – un rischio evocato da Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale.
Di queste due possibilità è necessario ci sia piena consapevolezza, fuori ma soprattutto dentro il Parlamento. L'approvazione ieri alla Camera della manovra è un atto dovuto per circoscrivere il rischio di scivolare nel baratro. Il boicottaggio delle poche e circoscritte misure di liberalizzazione un attestato di irresponsabilità.
Chi l'ha sponsorizzato e praticato sappia che se si vuole risollevare il Paese dalla traiettoria di stagnazione che si profila non vi è alternativa all'apertura competitiva e allo smantellamento delle rendite monopolistiche create da riserve di legge perché pesano come una tara sul sistema produttivo. Ma sappia anche che si è trasmessa al mondo l'idea di un Paese non riformabile, di uno, per dirla con il New York Times, il cui Governo «è destinato a sbattere contro i venti contrari degli interessi corporativi che avvinghiano ogni angolo della complessa, neofeudale economia italiana».
Il Governo sta facendo sforzi importanti, alcuni presenti nella manovra, per recuperare e meglio utilizzare le poche risorse disponibili, non disperdendole ma dedicandole a pochi progetti meritevoli, come quelli avanzati dal ministro Barca.
Ma lo stesso coraggio e la stessa inflessibile resistenza che ha opposto nel varare la riforma delle pensioni deve mostrarli nel proporre e imporre un vastissimo programma di liberalizzazioni. Avrà contro tassisti, avvocati, notai e farmacisti, e forse anche banchieri e compagnie aeree se, come deve, affronterà il problema ad ampio spettro.
Avrà però dalla sua milioni di cittadini, silenziosi e non urlanti: quelli stessi che hanno accettato quasi senza fiatare la riforma delle pensioni nella consapevolezza che, ancorché con sacrificio, contribuiscono oggi a evitare al Paese il baratro e dare domani alle generazioni che verranno un sistema pensionistico meno generoso ma più affidabile.
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