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Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2012 alle ore 14:19.

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È morto nella notte a Roma l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, per un arresto cardiaco. È stato il nono capo dello Stato, in carica dal 1992 al 1999. I funerali avranno luogo in forma privata domani alle ore 14 nella chiesa di Santa Maria in Trastevere in Roma.

Con Oscar Luigi Scalfaro scompare una figura singolare e complessa della storia repubblicana. Presidente della Repubblica, presidente della Camera, per un breve momento anche presidente del Senato, a lungo ministro. Responsabile del Viminale in anni difficili. Ce ne sarebbe abbastanza per qualificarlo senz'altro un uomo delle istituzioni a tutto tondo (peraltro questo piemontese di ascendenze calabresi era uno dei tre deputati dell'assemblea costituente del '46 ancora presenti in Parlamento, gli altri essendo Giulio Andreotti ed Emilio Colombo: tutti senatori a vita, tutti esponenti della Democrazia Cristiana).

Eppure Scalfaro è stato, sì, un personaggio che ha accompagnato la storia istituzionale della Repubblica, ma all'interno di questa storia è stato spesso protagonista o vittima di violente polemiche, quasi tutte con un preciso sottofondo politico. Che si accentuarono nel tormentato periodo in cui la Prima Repubblica affondò nella tempesta di Tangentopoli e prese il via una transizione tortuosa e per certi aspetti non ancora terminata a quasi vent'anni di distanza.

Scalfaro, cattolico rigoroso e anche rigido, fu al centro di questi eventi e portò al Quirinale, dove era stato eletto nel maggio del 1992, una precisa visione del paese e dei rapporti politici. La sua ascesa al vertice delle istituzioni avvenne in un momento drammatico. Il giorno prima, a Capaci, il giudice Falcone era stato assassinato dalla mafia insieme alla moglie a gli uomini della scorta. Una tragedia che scosse il Paese e che, alla luce degli avvenimenti successivi, era quasi un presagio, l'annuncio di un'epoca che si chiudeva. Così fu.

Scalfaro diventò capo dello Stato e si trovò a gestire la fine del mondo in cui credeva e nel quale si era formato. E non solo: due anni dopo l'onda lunga di Tangentopoli e dell'anti-politica portò al Governo la coalizione guidata da Berlusconi. Cominciò allora un lungo braccio di ferro. Nel giro di qualche mese, come molti ricorderanno, la Lega di Bossi si staccò dall'alleanza e Berlusconi fu costretto alle dimissioni. L'influenza di Scalfaro sulla decisione del capo leghista fu sicuramente notevole, benchè sempre dietro le quinte. Non si tornò alle elezioni, ma prese il via il governo Dini che si trovò ad essere appoggiato in Parlamento dal centrosinistra con l'opposizione del fronte berlusconiano, da cui peraltro proveniva lo stesso presidente del Consiglio.

In altri termini, una vicenda alquanto bizzarra dovuta senza dubbio agli errori politici di Berlusconi e Bossi, ma in parte al ruolo di architetto che Scalfaro si era ritagliato. La conclusione fu che la lunga transizione italiana prese il largo, tra conflitti inesausti e delegittimazioni reciproche sempre più astiose. Scalfaro, uomo della destra democristiana, amico di Scelba, in origine ostile alle aperture al centrosinistra, sognava probabilmente in cuor suo un ritorno alla Prima Repubblica e ai suoi assetti sicuri. Era un conservatore, rimasto intimamente legato al centrismo degasperiano.

Dal punto di vista politico non svolse mai, nel suo partito, ruoli di primo piano. Si distinse, appunto, solo agli inizi degli anni Sessanta per la sua ostilità al centrosinistra. Questa sua idea della politica si fondava però sull'adesione piena e convinta alla Carta costituzionale vista sempre come lo scudo contro qualsiasi avventura. È un suo merito, benchè poi, nella pratica, la difesa della Costituzione è tutta contro la "novità" di Berlusconi e del berlusconismo. Ed è qui, sul piano delle istituzioni, che egli diventa protagonista di un duello che farà più male che bene al Paese.

Certo, il fallimento del bipolarismo sembra dare – a posteriori – ragione a Scalfaro. In realtà non è proprio così. Già alla fine degli anni Ottanta (e forse molto prima) l'Italia aveva bisogno di una seria opera di riforma istituzionale e di ammodernamento complessivo. Viceversa Scalfaro non vide mai questa esigenza e anche al Quirinale la sua diffidenza contro Berlusconi si risolse in un'azione di contrasto e di contenimento, senza mai spingere i partiti verso una piena consapevolezza della loro crisi e della necessità di un processo riformatore. Era come se il capo dello Stato immaginasse che, una volta tolto di mezzo l'"usurpatore", si potesse tornare all'antico, con le forze politiche rinnovate da un bagno di umiltà. Naturalmente la questione era più complessa e e la crisi si è consumata, aggravandosi, fino ai nostri giorni. Come ben sa l'attuale presidente Napolitano, che infatti non si stanca di spingere il sistema all'auto-riforma.

In ogni caso Scalfaro è stato al centro di una lunga stagione. Gli va riconosciuta la dirittura morale, tant'è che le accuse che a un certo punto l'avevano investito sono poi cadute. Rimane una figura controversa sotto il profilo politico e il bilancio finale non può non tenerne conto. Un protagonista più delle istituzioni che della politica, potremmo dire: un uomo che avrebbe potuto fare di più per dare equilibrio al sistema. Se non lo ha fatto è stato per il suo naturale conservatorismo, per la difficoltà di comprendere che il sistema aveva allora, come oggi, bisogno di profonde riforme.

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