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Questo articolo è stato pubblicato il 31 gennaio 2012 alle ore 08:12.
L'ultima modifica è del 31 gennaio 2012 alle ore 06:36.

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«Perché non (ci?) vendono Rodi e le isole per ripagarsi il debito?». Era il 3 marzo 2010, la crisi greca era ancora agli inizi ma la Germania era già, fortissimamente, sul piede di guerra. Così la «Bild» non esitava a sparare quel titolo in prima pagina, riportando le dichiarazioni di un deputato tedesco. Creando immediato scalpore in Europa. E indignazione in Grecia.

Più o meno dopo due anni, dopo che esitazioni e temporeggiamenti elettoralistici tedeschi hanno permesso a un problema pari al 2% del Pil dell'eurozona di contagiare l'intera area, dopo che l'intreccio tra banche tedesche e debiti sovrani greci hanno comunque costretto Berlino a intervenire finanziariamente, Angela Merkel si è fatta precedere al vertice europeo di ieri da una proposta che, questa volta, punta senza mezzi termini all'esproprio tout court della sovranità nazionale della Grecia sulla politica di bilancio, da affidare direttamente a un commissario Ue. Non è la prima volta, né probabilmente sarà l'ultima, che la Germania della Merkel si comporta in Europa come un elefante in cristalleria.
Farlo però nel giorno in cui 26 su 27 capi di Governo dell'Unione sono chiamati ad approvare il "fiscal compact", cioè il patto che imporrà in modo vincolante controlli stringenti e sanzioni semi-automatiche ai Paesi che deviassero dal pareggio di bilancio o dalle nuove regole sui ritmi di riduzione del debito, appare decisamente una mossa spericolata.

Perché il nuovo patto europeo blinda in un nuovo Trattato qualcosa che assomiglia fin troppo alla cessione di sovranità nazionali sulle leve di spesa, di fatto alla graduale germanizzazione delle politiche di bilancio dell'eurozona e non. E perché, con questi chiari di luna, l'intempestivo annuncio di una volontà di commissariamento della Grecia ricorda molto quel "dire a nuora perché suocera intenda".
Di sicuro così l'hanno interpretata molti leader europei: non solo e non tanto i mediterranei, il grande bersaglio tedesco, che hanno taciuto (greco escluso), quanto gli altri, i virtuosi della tripla A o giù di li, che l'hanno bocciata come «inaccettabile», «offensiva» o «pericolosa per la democrazia». Parole, nell'ordine, del premier lussemburghese Jean-Claude Juncker, del cancelliere austriaco Werner Fayman, della danese Helle Thorning-Schmidt. Dalla parte di Berlino si sono schierati soltanto i primi ministri svedese e finlandese. Pochi. Tanto che alla fine la Merkel ha attutito i toni.

Nessuno nega che Europa ed euro in crisi e nell'anticamera di una nuova recessione abbiano bisogno di più integrazione delle politiche macroeconomiche e di bilancio come di una graduale iniezione di virtù tedesche. Nessuno nega nemmeno che la Grecia troppo spesso latiti nel rispettare gli impegni presi. Da qui ad azzerare però le sovranità nazionali in nome di una stabilità economico-finanziaria europea che azzeri anche futuri rischi di esborsi di solidarietà ai Paesi più vulnerabili, decisamente ce ne corre. Non a caso la levata di scudi ieri è stata generale con rare eccezioni.
Sì, perché la Merkel castigamatti piace molto ai Paesi sani del Nord se, con la sua ferrea disciplina, li garantisce contro costose instabilità nel Sud dell'euro. Non se esonda dentro i propri confini, minacciando la sovranità e la tenuta dei principi fondamentali delle rispettive democrazie.

Senza una solida sponda del Nord, la Germania non è in grado di imporre brutali espropri a nessuno: non al club mediterraneo e forse nemmeno alla Grecia. Però è in grado, ancora una volta, di fare molti danni. In un momento in cui i mercati appaiono relativamente pacificati, la sortita della Merkel eccita i nazionalismi insieme ai fantasmi della politica deteriore che l'integrazione europea aveva esorcizzato. E che ora rischiano di portare nuova destabilizzazione.
«Chiunque costringa la gente a scegliere tra assistenza finanziaria e dignità nazionale ignora una delle lezioni fondamentali della storia», ha dichiarato Evangelos Venizelos, il ministro delle Finanze greco, evocando tra le righe l'occupazione nazista del suo Paese.

Pessimo servizio alla Germania del dopoguerra. Pessimo perché altri non l'hanno detto ma di sicuro l'hanno pensato. Pessimo perché la schiacciante maggioranza (72%) degli irlandesi vuole ratificare per referendum il "fiscal compact" con tutti i rischi del caso. Favorevoli e contrari per ora sono spaccati quasi a metà (40% contro 36%) ma ci vuole molto meno dei progetti tedeschi per spostarne gli umori in negativo.
Pessimo perché già prima dello scivolone del cancelliere, il Belgio di Elio di Rupo aveva respinto con forza «le intrusioni europee nella politica di bilancio quando noi non lo facciamo in casa d'altri». Pessimo perché ieri la Repubblica Ceca ha detto no alla firma del fiscal compact. Pessimo, infine, perché neanche la Germania è senza macchia: per esempio è uno dei pochissimi (con l'Austria) a non avere ancora trasposto nel proprio ordinamento la direttiva europea sulla liberalizzazione dei servizi, un settore che incide per oltre il 70% nel Pil europeo, sottraendo così ai partner, con il suo protezionismo, un notevole potenziale di crescita in questi tempi di magra. Già, perché il recupero di stabilità non passa solo per il rigore: senza una frustata allo sviluppo rischia di rivelarsi un esercizio sterile. E anche pericoloso.

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