Storia dell'articolo

Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 14:04.

My24

L'Europa sembra essere ossessionata dal l'austerità. Un Paese dopo l'altro è costretto, sia dai mercati finanziari sia dalla Ue, ad avviare la riduzione del disavanzo del proprio settore pubblico.

E, se questo non fosse ancora abbastanza, 25 dei 27 Stati membri hanno sottoscritto lunedì scorso un nuovo accordo (il cosiddetto "fiscal compact") che li dovrebbe obbligare a non raggiungere mai un deficit di bilancio, corretto per il ciclo economico, superiore allo 0,5% del Pil (per fare solo un paragone, nel 2011 il deficit di bilancio degli Stati Uniti ha raggiunto l'8% del Pil).
Ma, poiché l'economia europea rischia di cadere in depressione, numerosi osservatori si domandano se l'austerità possa essere controproducente. La riduzione della spesa pubblica (o un aumento delle tasse) potrebbe comportare un declino così pesante dell'attività economica da far crollare gli introiti e di fatto deteriorare ulteriormente la situazione dei conti pubblici?
Questo è altamente improbabile, dato il modo in cui funziona la nostra economia. Inoltre, se fosse vero, ne seguirebbe che i tagli all'imposizione fiscale comporterebbero la riduzione dei deficit di bilancio, poiché una crescita economica più rapida genererebbe maggiori entrate, anche ad aliquote fiscali più basse. Questa asserzione è stata messa alla prova svariate volte negli Usa, dove i tagli fiscali sono stati invariabilmente seguiti, invece, da deficit maggiori.

In Europa, l'attenzione di oggi è focalizzata piuttosto sul rapporto debito/Pil. La preoccupazione è che il calo del Pil dovuto all'austerità possa essere così forte da incrementare il rapporto dell'indebitamento. Questo è importante, perché gli investitori usano spesso il valore del debito quale indicatore della sostenibilità finanziaria. Dunque, un deficit minore potrebbe di fatto far aumentare le tensioni sui mercati finanziari.
Tuttavia, un disavanzo inferiore deve portare nel tempo ad un debito più basso, sebbene questo peggiori nel breve periodo. Dopotutto, la maggior parte dei modelli utilizzati per analizzare l'impatto economico delle politiche fiscali lasciano intendere che la riduzione della spesa, per esempio, fa diminuire la domanda nel breve periodo, ma che dopo poco l'economia ritorna al livello precedente.

Dunque, nel lungo periodo, la politica fiscale non ha un impatto duraturo sul prodotto (o soltanto molto piccolo). Questo vuol dire che qualsiasi impatto negativo una domanda più bassa possa avere sul debito nel breve periodo, il rapporto verrebbe compensato in seguito (nel medio o nel lungo periodo) da un rialzo della domanda che riporta l'economia al suo livello precedente.
Inoltre, pur supponendo che anche gli effetti di una decurtazione definitiva della spesa pubblica sulla domanda e la produzione siano stabili, la riduzione del Pil rimarrebbe un episodio isolato, mentre la diminuzione del disavanzo continuerebbe ad avere un impatto positivo sul livello di indebitamento anno dopo anno.
È da notare che si è giunti a questa conclusione senza ricorrere a ciò che Paul Krugman ed altri hanno beffardamente definito "Fata fiducia". Negli Usa, non sarebbe effettivamente sensato aspettarsi che un disavanzo inferiore si traduca in un premio di rischio più basso - per la semplice ragione che il Governo americano paga già tassi di interesse estremamente bassi.

Ma, anche senza l'effetto fiducia, il bipartisan Ufficio bilancio del Congresso è arrivato alla conclusione che, seppure la decurtazione del deficit statunitense abbassi la domanda, ciò comporta anche la riduzione dell'indebitamento in modo stabile. Tutto questo dovrebbe essere tanto più vero per i Paesi della zona euro, come l'Italia e la Spagna, che al momento pagano un premio di rischio superiore al 3-4%. Per questi Paesi la Fata fiducia si è trasformata in un mostro.
La domanda cruciale allora diviene: conta di più l'effetto della riduzione del disavanzo nel rapporto debito/Pil nel breve periodo o a lungo termine?
I potenziali acquirenti di titoli italiani a dieci anni dovrebbero tener conto dell'impatto a lungo termine della riduzione del deficit sul livello del debito, che quasi certamente è positivo. Naturalmente, alcuni partecipanti al mercato potrebbero non essere razionali, e richiedere un premio di rischio più elevato in seguito al peggioramento dell'indebitamento nel breve periodo.

Ma quanti concentrano la loro attenzione sul breve termine rischiano di perdere il loro denaro, perché il premio di rischio alla fine è destinato a diminuire nel momento in cui cambierà il rapporto del debito.
Abbandonare le politiche di austerità per paura che i mercati agiscano in modo miope vorrebbe dire solo rimandare il giorno della resa dei conti, in quanto nel lungo periodo il debito è destinato ad aumentare. Inoltre, è altamente improbabile che un Paese come l'Italia, per esempio, possa pagare un premio di rischio più basso se continua ad ampliare il proprio disavanzo. Sarebbe pericoloso per i Paesi della zona euro fortemente indebitati abbandonare ora l'austerità. Qualsiasi Paese entri in una fase di accresciuta avversione al rischio con un debito di dimensioni eccessive si trova di fronte solo a brutte scelte. La messa in atto di programmi di austerità credibili rappresenta il male minore, anche se ciò può aggravare la recessione ciclica a breve termine.
(Traduzione di Roberta Ziparo)
© PROJECT SYNDICATE, 2012

Shopping24

Dai nostri archivi