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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2012 alle ore 09:48.
L'ultima modifica è del 11 febbraio 2012 alle ore 08:10.

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In un susseguirsi di ultimatum, la Grecia vive dentro una specie di clessidra. In un clima di grave concitazione, scandito ora dopo ora da scontri di piazza e dimissioni nel governo, il Parlamento di Atene dovrebbe votare domenica sera il pacchetto di austerità. Mercoledì, salvo incidenti, l'Eurogruppo formalizzerà il nuovo pacchetto di aiuti senza il quale la Grecia fallirebbe.

C'è una dittatura dell'emergenza, ma in realtà la clessidra greca dovrà essere girata ancora molte volte. Atene rimarrà sotto la tenda ad ossigeno per anni. Sulla base dei conti attuali, nel 2020 il debito pubblico non arriverà al 120%, ma al 135%. L'ultima analisi consegnata dal premier Lucas Papademos al Fondo monetario riporta che il Pil greco calerà quest'anno del 4-5%, anziché del tre. I partner europei chiedono ai partiti greci di impegnarsi formalmente a rispettare le condizioni anche dopo le elezioni generali di aprile. Dei tre maggiori partiti l'unico che si sottrae è quello che ha meno possibilità di governare. Il quadro in fondo è sia chiaro, sia incognito: la Grecia accetterà le condizioni che ne limitano la sovranità politica in cambio di un salvataggio privo di alternative che durerà dieci anni.

Saranno dunque strane elezioni in aprile per quelli che il quotidiano di Atene "Kathimerini" definisce «politici da dracma». Stiamo parlando certo di politici che hanno nascosto le carte e che hanno usato la minaccia di default sul tavolo dei negoziati come un'arma di ricatto verso i partner. Ma parliamo in realtà soprattutto di milioni di cittadini greci impoveriti che hanno paura del futuro.
Per rispetto delle democrazie bisogna saper uscire dalle categorie generali e guardare ai fatti. Quando la troika (Fondo monetario e istituzioni europee) prescrisse per la prima volta una riforma del lavoro alla Grecia nel 2010, la procedura fu la seguente: la riforma venne scritta tra Washington e Bruxelles, quindi fu portata alla sede ateniese di uno studio legale internazionale in modo che fosse scritta nei termini compatibili con la legge greca. Infine il testo, così com'era, venne consegnato al Governo - allora guidato da Georges Papandreou - in modo che non potesse più essere modificato dal Parlamento. I politici greci nascosero la realtà agli elettori, mentre la dialettica in Europa liquidava il problema del consenso come un danno collaterale. Si scopre oggi che le riforme del primo pacchetto di aiuti alla Grecia non sono ancora state realizzate interamente. Ci si può davvero sorprendere?

Noi italiani siamo confortati dal recupero di credibilità ottenuto grazie a Mario Monti, ma se nello scorso novembre il Paese fosse invece precipitato nel burrone greco - e con minori responsabilità - come avremmo reagito a una riforma del mercato del lavoro imposta in termini simili? Tra la pressione dei mercati, delle agenzie di rating e dei partner, le difficoltà dietro al negoziato greco richiederebbero più comprensione.
In un confronto interno al partito della cancelliera tedesca, un ambito democratico il cui peso specifico è oggi molto più rilevante dell'intero Parlamento greco, Angela Merkel ha spiegato ieri che un default sarà evitato perchè le conseguenze sarebbero troppo gravi. La strategia scelta da Berlino è la stessa da due anni: si interviene per aiutare l'euro e non il singolo Paese; si interviene inoltre lasciando in atto la pressione politica o dei mercati e infine si subordina tutto alla logica, espressa ieri dalla cancelliera, di "minimizzare i costi" per la Germania. Finora cercando di minimizzarli, i costi non hanno smesso di ingigantirsi, anche per la Germania.

Poche giornate come quella di ieri esprimono le contraddizioni che la crisi nell'euroarea ha aperto nel cuore delle nostre democrazie. Gli scontri per le strade di Atene mentre il Governo fa il massimo sforzo per salvare l'unità nazionale greca, fanno da controcanto alla sintonia tra Barack Obama e Mario Monti graffiata dal giudizio dell'agenzia di rating Standard & Poor's sulle banche e sulle prospettive economiche italiane. Sono contraddizioni che fanno parte delle nostre democrazie dove consenso popolare e mercati finanziari non stanno convivendo pacificamente. A ben vedere la sfida che l'Europa deve cominciare ad affrontare è più profonda di una crisi finanziaria. Va al cuore del suo progetto politico. E non potrà essere affrontata pensando solo a minimizzare i danni.

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