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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2012 alle ore 09:47.
L'ultima modifica è del 11 febbraio 2012 alle ore 08:10.

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C'è stata troppa enfasi mediatica intorno al viaggio di Mario Monti negli Stati Uniti? Volendo ammettere che sia così, essa è figlia del bisogno estremo di vedere riconosciuto un ruolo, una rispettabilità internazionale al rappresentante dell'Italia.

In fondo, una buona percentuale di italiani ha accompagnato idealmente e non senza trepidazione il presidente del Consiglio nella sua visita americana, augurandosi che fosse un successo. E lo è stato, al pari dei recenti incontri a Berlino e a Parigi.
Non si esagera nel prendere atto di questo dato. La «sponda atlantica» è essenziale per il governo di Roma, oggi come nei momenti cruciali del passato. E Obama dimostra a sua volta di avere bisogno della sponda italiana e del peso che Monti sta recuperando in Europa.
Non è retorico riconoscere questi sviluppi perché è evidente che il nostro esecutivo non è in cerca di «photo opportunity», cioè di colloqui privi di contenuto. Al contrario, s'intravede una trama o un filo conduttore che con il tempo può contribuire a cambiare il volto politico dell'Europa e a dare un nuovo senso alla comunità occidentale. Evitiamo l'enfasi, dunque, ma non perdiamo di vista la realtà. La quale ci dice che proprio i viaggi all'estero, e in particolare quest'ultimo in America, hanno modificato il profilo di Monti e forse anche la prospettiva della sua missione. Se davvero negli Stati Uniti si vede in lui «l'uomo che può salvare l'Europa», secondo la copertina di «Time», vuol dire che la trasformazione è avvenuta.

È difficile considerare oggi Monti un premier tecnico di mera transizione o di passaggio, chiamato a tenere in ordine i conti e a fare qualche riforma prima di restituire lo scettro alla politica tradizionale. Non è più così, nel momento in cui i nostri principali alleati guardano a lui come a un interlocutore di considerevole statura e di sicura affidabilità. In altre parole, essi lo hanno mutato in un interlocutore politico a cui non desiderano affatto rinunciare. Questa è la realtà, resa più drammatica dalla crisi tutt'altro che risolta nel l'area della moneta unica. Tutto si tiene, come Obama e Monti sanno bene.
A questo punto la riflessione è duplice. Da un lato, riguarda l'orizzonte temporale del governo Monti. Dall'altro, il distacco oggettivo fra un presidente del Consiglio pienamente legittimato sul piano internazionale e un insieme di partiti dall'identità incerta e soprattutto semi-delegittimati nell'opinione pubblica (lo scandalo del finanziamento pubblico è solo l'ultimo episodio di un pericoloso e cinico andazzo). È vero che il governo vive grazie al sostegno delle forze politiche presenti in Parlamento. Ma è altrettanto vero che queste forze, dal Pdl al Pd al terzo polo, non hanno alternative.

Esse offrono a Monti un appoggio obbligato, talvolta a denti stretti, ma non hanno avuto fino a oggi il coraggio o la convenienza a riconoscersi in una cornice di «grande coalizione» ufficialmente definita. Purtroppo, salvo qualche eccezione, non hanno nemmeno la capacità e lo slancio per procedere a un autentico rinnovamento del costume e del modo d'intendere il servizio ai cittadini. Lo dimostra il confuso avvio del confronto sulla legge elettorale.
Fra pochi mesi, alla scadenza della legislatura, il duplice problema si porrà nei suoi termini politici esatti. Monti ha fatto capire più volte di non voler restare a Palazzo Chigi. Ma chi si assumerà la responsabilità, prima o dopo le elezioni, con o senza un ritorno al sistema proporzionale, di prenderlo in parola e di non chiedergli di continuare nella sua opera? Come si è visto in queste settimane, l'interesse nazionale potrebbe e forse dovrebbe consigliare la permanenza di Monti alla guida del governo. Difficile pensare che si voglia disperdere il capitale di credibilità che il premier sta accumulando.

Ma in quel caso occorre immaginare una coalizione in grado di appoggiare a viso aperto l'esperimento che continua. Una larga coalizione, come suggerisce Casini e come Bersani per ora smentisce? Vedremo. Anche perché una larga coalizione dovrebbe ovviamente abbracciare il Pdl, il cui leader storico Berlusconi è diventato un esplicito sostenitore di Monti. Quale che sia lo scenario, i partiti dovranno prima passare attraverso le urne. E dovrebbero arrivarci avendo colmato il ritardo che oggi li divide dalla realtà del paese. Magari dopo essersi scomposti e ricomposti intorno a nuove alleanze e a imprevedibili equilibri. Così che le elezioni non siano il solito bagno di sangue, ma un passaggio responsabile per ridare poi subito all'Italia il governo più adatto. Dopo l'investitura ricevuta in Europa e negli Usa, nessuno può negare che Monti sia l'uomo che meglio rappresenta il complesso equilibrio dell'Italia che sta uscendo dalla fallimentare Seconda Repubblica. I futuri assetti del paese, a cominciare dalla guida di un esecutivo di nuovo rispettato nel mondo, non potranno non tenerne conto. E le forze politiche, tranne quelle anti-sistema, dovranno rimodellarsi intorno a questa verità.

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