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Questo articolo è stato pubblicato il 14 febbraio 2012 alle ore 07:58.
L'ultima modifica è del 14 febbraio 2012 alle ore 08:31.

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L'irrompere sulla scena di un Pisapia ligure nelle vesti del professor Doria, vendoliano e fresco vincitore delle primarie del centrosinistra a Genova, rappresenta quel genere di incidente di percorso che il Partito Democratico non può in alcun modo sottovalutare. Bersani ha offerto a caldo l'unica risposta possibile: «adesso tutti ventre a terra e pensiamo a vincere le elezioni comunali con Doria». Ma naturalmente la questione è assai più complicata e il primo a saperlo è proprio il segretario del Pd.

Negli ultimi tempi Bersani ha vinto a Milano con Pisapia (presentato da Vendola), a Napoli con De Magistris (espresso dall'Italia dei Valori), a Cagliari con Zedda (indicato da Vendola) e ora si prepara a fare la campagna a Genova con discrete prospettive di vittoria, ma ancora una volta con il candidato di Vendola. In tutte queste occasioni il voto delle primarie ha deluso i candidati del Pd e premiato quelli del Sel, il movimento vendoliano, oppure dell'IdV nel caso di Napoli (e c'è anche l'eccezione di Firenze, dove Renzi era un "outsider" interno su posizioni moderate).

È evidente che non basta dire «e ora ventre a terra» per rimuovere la realtà. Sempre più spesso i democratici sono costretti a inseguire la vittoria fornendo le truppe a un condottiero «straniero». O, meglio, a personaggi che nascono a sinistra del Pd, dando voce alla crisi di fiducia che coinvolge l'identità politica di questo partito. Del resto, Vendola e Di Pietro non fanno mistero della loro volontà di modificare la natura del Pd e in un certo senso di «colonizzarlo».

Proprio l'opposto del progetto accarezzato dai vertici di via del Nazareno: ammorbidire e inglobare pian piano Vendola come costola di sinistra; al tempo stesso frenare e se possibile emarginare Di Pietro. La verità sembra essere che almeno in molte grandi città il messaggio riformista del Pd ha perso fascino agli occhi di un'opinione pubblica frustrata e disincantata. È colpa delle primarie? È colpa delle divisioni interne, per esempio del fatto che a Genova i candidati del Pd erano due, come osserva Enrico Letta?

A molti sembra che il meccanismo delle primarie, se si vuole mantenerlo, debba essere aperto, con tutti i rischi connessi. Deve servire a rimescolare le carte e, come è ovvio, a ridare slancio a una politica stanca. L'idea delle «primarie di coalizione», con il Pd che si presenta avendo già scelto il suo candidato, ha l'aria di un controsenso. D'altra parte, è vero che in tempi di anti-politica e di rottura degli equilibri gli esponenti democratici finiscono per pagare il prezzo più salato, soccombendo alla concorrenza. Il rimedio è forse uno solo: il rinnovamento interno, la capacità di costruire una nuova immagine accanto, s'intende, a una incisiva proposta politica.

Sul piano nazionale Bersani ha scelto con molta determinazione di sostenere Monti, costi quel che costi. È l'unica scelta possibile, ma non è indolore. Per il Pd e la sua storia rappresenta anche una sfida culturale: basti pensare ai possibili strappi sull'articolo 18. Oggi il pericolo è che il partito si trovi in una tenaglia: da un lato l'assedio dei «vendoliani» che equivale in molti casi alla richiesta di una nuova classe dirigente; dall'altro la difficoltà di precisare una linea riformista in tempi di rigore e di austerità montiana. Ci vorrà una buona dose di fantasia per evitare di restare stritolati nell'ingranaggio.

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