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Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2012 alle ore 08:04.
L'ultima modifica è del 15 febbraio 2012 alle ore 08:40.

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Il Partito Democratico di Bersani vive un singolare paradosso. Nei sondaggi è il primo, accreditato di una percentuale che oscilla intorno al 28 per cento e in qualche caso arriva a sfiorare il 29. Eppure si tratta dello stesso partito che sprofonda nello psicodramma di Genova, dilaniato dai contrasti interni. E che nelle città regala posizioni alla sinistra di Vendola, a sua volta ben intenzionata a mietere crescenti consensi nella frustrazione dell'elettorato del Pd.

La contraddizione è più apparente che reale. Nei sondaggi il partito di Bersani risulta primo perché beneficia del crollo del Pdl, sceso al 22-23 per cento. Quindi il sorpasso c'è stato, ma più che altro per demerito del centrodestra. Il Pd al momento è al di sotto da quel 33 per cento raggiunto da Veltroni nell'aprile del 2008 (con il Pdl non al 23, bensì quasi al 38 per cento). Questo significa che Bersani è, sì, in testa nella gara virtuale, ma il suo voto è piuttosto fragile: non s'intravede un'ascesa convincente e, anzi, basta un'elezione primaria in una città peraltro di antico insediamento «rosso» per mettere in crisi il progetto.

Ma poi, di quale progetto si tratta? Secondo il sindaco sconfitto a Genova, Marta Vincenzi, «il Pd deve ancora decidere cosa farà da grande». Si dirà che è la battuta acida di una persona abbandonata dal suo partito. Ma forse contiene un nocciolo di verità. Così come vale la pena di porgere orecchio all'analisi di Flores d'Arcais sul "Fatto Quotidiano". Non è nuova, ma è resa attuale dalla vittoria di Doria nelle particolari circostanze in cui si è realizzata. «Le rivalità dei D'Alema e dei Veltroni – scrive Flores –, esattamente come quelle dei Bersani e dei Matteo Renzi, sono solo cascami di un universo che ha la vitalità dello zombie, ma il potere di seppellire ogni rinnovamento nelle inerzie di casta». Si avverte qui l'eco di un argomento usato da Doria a Genova: «Io parlavo di questioni concrete, loro (le candidate del Pd, ndr) dell'alleanza con l'Udc».

Naturalmente il tema delle future alleanze è essenziale per il centrosinistra. Ma posto in termini freddi, come un'alchimia di laboratorio, serve solo a incoraggiare le scorribande della nuova sinistra. Con i risultati che tutti possono vedere.

È curioso allora che il segretario del Pd, in risposta a un'editoriale di Scalfari su "Repubblica", scriva che «dopo quattro anni siamo usciti dal problema identitario... Non siamo in cerca di un dna». Il riferimento è all'ipotesi – anche questa non nuova – se convenga o meno al Pd di oggi una svolta in senso socialdemocratico, nel solco del socialismo europeo. Se ne discute dai tempi dell'Ulivo di Prodi, nella speranza spesso delusa di definire forma e sostanza del riformismo. Quello che colpisce è che Bersani consideri ormai chiuso il problema dell'identità. Quando invece proprio la vicenda di Genova dimostra che è prioritario.

È evidente che all'ombra del governo Monti, a cui assicura il suo sostegno, il Pd deve riscoprire la passione politica e un modo efficace di trasmettere all'opinione pubblica la sua visione del paese. Poi verrà la questione delle alleanze. E Bersani dovrà evitare un doppio pericolo: da un lato, scivolare in forme quasi inconsapevoli nelle braccia di Vendola; dall'altro, proporre senza calore, quasi fosse una scelta inevitabile, l'incontro con le forze centriste. Le mosse politiche andranno prima spiegate. Dopo Genova non è più possibile fare altrimenti.

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