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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2012 alle ore 09:03.
L'ultima modifica è del 06 marzo 2012 alle ore 09:03.

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Il paradigma del nostro modello economico è l'accumulo di capitale. Si producono beni e servizi di qualità a costi sempre più competitivi così da generare profitti attraverso i quali finanziare la crescita. Vale per le nazioni e vale per le imprese. Per l'Italia e per chi vi risiede purtroppo non più. Lo sa bene chi svolge lo stesso tipo di attività all'interno dei confini nazionali e altrove. In paesi come Germania, Francia o Stati Uniti a parità di skills i MOL sono maggiori perché non compressi da fattori di costo fuori controllo come energia, burocrazia e vessazioni nascoste (pensiamo alla gestione dei rischi legali sul fronte lavoro per chi svolge una attività labour intensive o sul fronte ambiente per le capital intensive).

Quello che resta poi, l'EBIT, è falcidiato da interessi che, condizionati dal rating sovrano, sono arrivati a costare due o tre volte che nei paesi con i quali competiamo e da imposte la cui incidenza reale arriva anche al doppio che altrove. Quello che ne risulta è una generazione di cassa modesta e spesso da dedicare alla compensazione delle debolezze delle nostre controparti domestiche ovvero a coprire le perdite sui crediti concessi alla clientela. Quest'ultimo fenomeno è in crescita, conseguenza del perverso circolo del credito rarefatto e costoso e della voracità dello Stato, che in cima alle preoccupazioni continua ad avere la soddisfazione degli appetiti della sua insaziabile e pletorica macchina. E qui veniamo al punto. Tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici sono una massa che una economia spinta da poco più di 15 milioni di soggetti impiegati in settori market non è più in grado di sostenere. Lo hanno capito gli Irlandesi che partendo da una incidenza molto più bassa ne hanno ridotto il numero e ancora di più gli stipendi. Lo hanno capito i Greci, purtroppo fuori tempo massimo.

E persino il dittatore Franco aveva compreso che la 'falsa occupazione' è peggio della disoccupazione se è arrivato a consegnare alla Spagna democratica un paese con un potenziale di crescita che a distanza di trent'anni è valutato ancora migliore del nostro proprio in virtù della minore zavorra di pubblico impiego. Se non metabolizziamo la rilevanza topica di questo problema siamo condannati a vedere il nostro paese sparire dal firmamento delle potenze industriali e a declinare economicamente, oltre che moralmente. La strada è già cominciata e viene percorsa a velocità terribile. Imprese che non accumulano capitale infatti non investono, non crescono e diventano facili prede. Il tedesco che producendo 'macchine del popolo' fa 16 miliardi di utili netti (oltre l'1% del Pil che mettono assieme 60,5 milioni di italiani) assieme a qualche collega può già oggi comprarsi metà dell'industria meccanica della penisola. Il francese, che ha la presunzione di sapere gestire gli equilibri politici anche fuori casa e che trova conforto nella Storia che racconta di come Napoleone III condizionò la creazione della nostra nazione, si impossesserà dei sistemi a rete, nonostante il legislatore ricopra in questi settori un ruolo centrale.

A loro dunque andranno banche, assicurazioni, utilities e trasporto su rotaia ed aereo. Gli americani, più mercantili, pescheranno nella produzione di beni di largo consumo. I cinesi faranno i cinesi. Per le imprese italiane nessuna possibilità di difendersi fino a che tutto quello che resta deve essere immolato sull'altare della macchina pubblica. In occasione dell'ultima Consulta dei Presidenti l'incipit più apprezzato è stato quello di Fabio Atzori di Confindustria Savona che ha detto: «È tre anni che vengo qui e non ho mai preso la parola. Lo faccio ora perché sento che nessuno tira mai fuori l'argomento. Ma quando lo diremo che se non licenziamo metà dei dipendenti pubblici andiamo a fondo tutti?». Trenta secondi di intervento e un minuto di applausi. Il Governo tenga dunque conto di questa raccomandazione perché la difesa della italianità si consegue non con le golden share ma consentendo alle imprese di prosperare senza i costi e l'assedio della burocrazia.

Vice presidente Confindustria per il federalismo e le autonomie

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