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Questo articolo è stato pubblicato il 07 marzo 2012 alle ore 10:48.

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Ricostruzione lenta e occasioni perdute. Nella foto l'ingresso di quella che doveva essere la nuova "business town" in cui la città di Ishinomaki pensava di attrarre investimenti dall'anno scorso: sullo sfondo i prefabbricati (sono quasi 1.200) sorti al posto delle fabbriche, a causa dello tsunami, per ospitare 2.500 sfollatiRicostruzione lenta e occasioni perdute. Nella foto l'ingresso di quella che doveva essere la nuova "business town" in cui la città di Ishinomaki pensava di attrarre investimenti dall'anno scorso: sullo sfondo i prefabbricati (sono quasi 1.200) sorti al posto delle fabbriche, a causa dello tsunami, per ospitare 2.500 sfollati

ISHINOMAKI - Doveva essere la terra promessa per il rilancio dell'economia della zona: un distretto nuovo di zecca per attrarre investimenti produttivi da tutto il resto del Giappone e magari anche dall'estero. Dietro un lastrone semicurvo su cui campeggia la scritta "Ishinomaki tomorrow business town", però, oggi non ci sono fabbriche né laboratori: è sorta una grande baraccopoli fatta da 1.150 prefabbricati in cui vivono oltre 2.500 persone che hanno perso la casa in seguito allo tsunami dell'11 marzo 2011. Quello della principale città a nordest del capoluogo del Tohoku, Sendai, è uno dei più grandi "complessi provvisori" che punteggiano i paesi lungo i circa 400 km della costa settentrionale del Giappone, spazzata dalla furia delle acque di un Oceano che chiamano Pacifico. Suo malgrado, a un anno di distanza, la mancata business town è diventata il simbolo di un processo di ricostruzione che procede sì, ma lentamente e tra tante difficoltà e incertezze. Il paesaggio dimostra che molto è stato "riassettato" - il ripristino delle infrastrutture è a buon punto - ma quasi tutto deve essere ancora ricostruito. Non è un caso: basti pensare che l'Agenzia nazionale per la ricostruzione ha aperto i battenti solo una ventina di giorni fa e il gioco di sponda tra burocrazie centrali e autorità locali frena il decollo dei progetti.

«La città aveva 160mila abitanti. Quasi 4 mila li ha persi con la grande tragedia, altri 10-20mila se ne sono andati », dice Keita Watanabe, segretario della no-profit "Ishinomaki revival support network". «Il colpo è stato duro per l'economia e il tessuto sociale. Noi cerchiamo di ricostituire anzitutto un senso di comunità tra le persone sradicate dal loro contesto abituale». Qualche prefabbricato mostra già piccoli segni di deterioramento, ma siamo in Giappone: non c'è sporcizia in giro e i panni sono stesi ad asciugare a livello stradale, senza timore di furti. La cantilena di una venditrice di "bento" (box con cibi vari) dà un tocco d'altri tempi a un'atmosfera grigia nel nevischio invernale. Uno dei prefabbricati funziona da centro sociale. Una ventina di donne, per lo più piuttosto anziane, lavorano alacremente all'uncinetto: realizzano cuoricini colorati che vengono venduti anche nei grandi magazzini Takashimaya. «È il fulcro del nostro progetto chiamato East Loop - dice Tamae Takatsu, direttrice di una Ong specializzata nella promozione del "Fair trade" con l'Africa e l'America Latina e ora impegnata in patria - Diamo alle donne che vivono nelle dimore temporanee un'occasione per stare insieme e un piccolo reddito».

Le donne hanno ciascuna storie incredibili da raccontare sulle circostanze della tragedia, ma appaiono piuttosto energiche. «L'atto stesso dell'uncinetto è utile per la stabilità mentale: è una terapia psicologica», osserva Takatsu, mentre una delle signore, Reiko Chiba, soggiunge: «Noi abbiamo reagito meglio degli uomini. Mio marito faceva il coltivatore di riso. Dopo aver perso tutto, casa e macchinari, non esce nemmeno più all'aperto». Agricoltura e pesca sono state particolarmente danneggiate. «Molti le hanno abbandonate, trovando lavoro nell'unico settore dove c'è offerta: le costruzioni», dice Katsuya Sasaki, 55 anni, uno che fa ancora il pescatore nel porticciolo della frazione di Ozaki. Lui, però, continua ad andar per mare ed è leader della locale associazione dei pescatori. Fa venire i brividi nel raccontare come siano riusciti a salvare buona parte delle barche: «Ci siamo resi conto che stava per arrivare un grande tsunami dopo un terremoto così forte. Abbiamo subito preso il largo arrivando a 3-4 km dalla costa: a quella distanza, le onde non travolgono». Sasaki è fortunato ad abitare in un nuovo villaggio-modello in splendida posizione panoramica, frutto del progetto "K-engine" promosso tramite donazioni private dal prof. Osamu Goto, esperto di architettura tradizionale giapponese alla Università Kogakuin di Tokyo. «Case vere, permanenti, rispettose di ambiente e tradizioni locali e costruibili velocemente al costo contenuto di 9 milioni di yen», spiega l'architetto che le ha disegnate, Shinichi Sekiya. «Visto che il Governo dà 3 milioni di yen di sussidio a chi ha perso la casa, e un prefabbricato costa 5 milioni e dura solo due anni, siamo fiduciosi che la nostra proposta trovi diffusione». Le 11 case in cedro giapponese del villaggio-modello si trovano su terreni messi a disposizione del costruttore Akio Kumagai, che non ha peli sulla lingua: «I prefabbricati costano in modo scandaloso e richiedono alti oneri per la manutenzione, visto che si deteriorano presto. Sono in molti a mangiarci sopra». Un sospetto condiviso da operatori stranieri che - dall'Italia alla Thailandia - hanno offerto prefabbricati migliori e a prezzi bassi ma sono rimasti tagliati fuori dalla torta. Un esempio tra tanti che rafforza la sensazione secondo cui certe abitudini non siano cambiate e il Paese abbia perso l'occasione per una svolta. Da privati e autorità locali sono venute idee interessanti. Dal centro non è arrivato un "Blueprint", una visione organica per rilanciare il Tohoku.

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