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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2012 alle ore 10:05.
L'ultima modifica è del 13 marzo 2012 alle ore 10:05.

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In ogni guerra c'è una svolta. In Bosnia la strage di Srebrenica spinse gli americani a intervenire, in Kosovo fu il massacro di Racak a innescare l'ultimo conflitto contro Milosevic. L'eccidio di Kandahar in Afghanistan e la carneficina di Homs in Siria ci mettono di fronte a un dilemma: da Kabul, nonostante gli errori, non possiamo andarcene, a Damasco l'Occidente per ora non si muove. La Siria non sarà la Libia, ripetono a Mosca e Pechino, frenando ogni iniziativa, persino umanitaria.
Quella di Homs è una strage annunciata, anche se non ci sono ancora prove inoppugnabili sulla responsabilità del regime. Ma il video, con donne e bambini martoriati, è un orrore indescrivibile.
La comunità interazionale e l'Onu finora non hanno concluso nulla. Né il governo né l'opposizione hanno accettato proposte di tregua o di dialogo. Il regime pensa di potere stroncare la rivolta, i ribelli sperano nell'aiuto dei Paesi arabi: forse finiranno stritolati in una guerra civile in stile libanese o iracheno. Ma da qui non siamo in grado di dare una risposta convincente né in Afghanistan né in Siria.

Come previsto siamo finiti nella trappola afghana. La data del 2014 per il ritiro delle truppe è virtuale: dovremo restare, sia pure con i consiglieri militari, per puntellare Hamid Karzai.
Non si può abbandonare Kabul al suo destino ripetendo gli errori del passato: serve tentare una ricostruzione civile altrimenti tutto quello che è stato fatto risulterà inutile. Qualche dato: se nei prossimi 10 anni il Pil crescerà del 12% l'anno, l'Afghanistan nel 2022 raggiungerà l'attuale livello del Bangladesh. Rischiano di volatilizzarsi 30 miliardi di dollari di aiuti, una cifra molto alta in un Paese dove si vive con meno di un dollaro al giorno.
Il vero nemico, oltre alla guerrriglia, è la mancanza di motivazione. Questa è una delle ragioni perché si ripetono episodi ingiustificabili, dall'oltraggio ai cadaveri da parte dei marines, al rogo del Corano nella base di Bagram, a questo ultimo evento definito un raptus di follia: come sanno bene i comandanti si è creata la “sindrome da avamposto”, da isolamento, un senso di scollamento tra chi rischia la pelle sul campo e i motivi che ci hanno portato tra i picchi dell'Hindukush. Fu così, in anni recenti, anche in Somalia.

Dopo l'uccisione di Bin Laden la guerra ha perso gran parte del suo significato. I 300 milioni di dollari spesi ogni giorno e le vittime militari e civili appaiono un peso insostenibile. Sono passati dieci anni dall'inizio dell'intervento militare più lungo della storia degli Stati Uniti e l'unica via di uscita che si profila è quella di negoziare con i talebani. Peccato che si stia regalando alla guerriglia l'arma più potente: quella della propaganda anti-occidentale. Ed è logico che i talebani eviteranno le trattative quando possono ancora prendere tempo per logorare le truppe straniere e il governo di Kabul.
La verità è che se non hanno una strategia gli americani non possiamo averla noi. Quindi per convincerci a restare dovranno elaborarne una: in Afghanistan non sono soli. Aiutare gli afghani a questo punto è anche aiutare gli americani a uscire dall'abisso dove sono sprofondati. Ma in Siria l'Europa, che già fallì nei Balcani, deve trovare una risposta autonoma: questa è una tragedia mediterranea che riguarda tutti noi.

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