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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2012 alle ore 09:32.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2012 alle ore 09:32.

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«Lo strappo di Monti» titolava ieri l'Unità, giornale del Pd. È un titolo polemico, ma soprattutto vuole esprimere il risentimento di chi si sente tradito. Il colpevole sarebbe Monti, colui che ha operato lo strappo; il Pd invece dipinge se stesso nella parte della vittima, di chi ha subìto una grave ingiustizia: è questo il tono scelto dal quotidiano di Bersani, anche nel commento del direttore Claudio Sardo. Ma concentrarsi sullo «strappo» del presidente del Consiglio ha un significato politico evidente. Equivale a darsi come obiettivo la ricomposizione della frattura, sfruttando fino in fondo il passaggio cruciale in Parlamento. Se c'è stato un malinteso o una forzatura, i margini per ricomporre l'incomprensione sono, o dovrebbero essere, a portata di mano. Ed è vero che il Pd è un partito in subbuglio come mai nella sua storia, pressato dai suoi elettori, dalla Cgil, dalle correnti della sinistra interna.

Ma è altrettanto vero che il primo a desiderare la ricucitura è il segretario Bersani e con lui buona parte del vertice.

Quale sarebbe l'alternativa? Una scissione nel segno della riforma del lavoro sarebbe il suicidio del Pd. Una fetta andrebbe a ingrossare le file del "terzo polo", un segmento forse lascerebbe la politica e una parte non piccola sarebbe calamitata da Vendola, avendo la Cgil come il sole intorno a cui orbitare. Sarebbe necessario un numero imprecisato di anni prima di ricostruire una forza riformista capace di attrarre anche gli elettori moderati. Ecco perché tutti nel partito, anche i critici di Bersani (a cominciare da Veltroni che si rivolge a Monti: «Non servono diktat») appaiono cauti e concentrati sulle modifiche parlamentari.

D'altra parte, se il Pd non riesce ad accettare la riforma Monti-Fornero, sia pure emendata dalle Camere, la stabilità del Governo sarebbe scossa dalle fondamenta. Come è noto, l'equilibrio si regge sul tacito patto Pdl-terzo polo-Pd. Se l'assetto si rompe, ne deriva una crisi dell'esecutivo tecnico destinata a precipitare il Paese verso le elezioni anticipate in condizioni che dire drammatiche è poco. Non è strano che Vendola descriva questa prospettiva in termini positivi dal suo punto di vista; ma sarebbe molto strano se questa fosse la scelta finale di Bersani e del gruppo dirigente. In sostanza, la priorità è ricomporre lo strappo. Ridare un ruolo al Pd come principale partito del centrosinistra (e primo nei sondaggi a livello nazionale). Ridurre l'area delle tensioni sociali, fermo restando che la Cgil non rinuncerà alla sua linea ostile.

Non dovrebbe essere impossibile raggiungere questi traguardi attraverso il lavoro del Parlamento, tanto più che lo strumento sarà la legge delega e non il decreto. Ci sono emendamenti che stravolgono una legge e altri che ne integrano e correggono questo o quell'aspetto. Monti ha interesse a mantenere il punto, in particolare a rendere chiaro che il potere di veto sindacale è stato sconfitto. Ma ovviamente non ha interesse a sfidare un pezzo della sua maggioranza fino al punto di far naufragare il Governo. Peraltro il premier è di sicuro consapevole che il problema sociale esiste, testimoniato anche dalle prese di posizione inusuali del mondo cattolico.

Il centrosinistra, a sua volta, ha interesse a ottenere un risultato politico, perché la sua voce non può essere ignorata o mortificata. Ma non ha alcun interesse a spezzare il filo che tiene in piedi il Governo tecnico. Tanto più che, come ricorda Pietro Ichino, molti dei tasselli che compongono il testo complessivo della proposta governativa sono stati ricalcati dagli studi e dalle iniziative elaborati dallo stesso Pd negli ultimi anni. Quando c'è la convenienza politica a trovare un'intesa, è difficile che la situazione sfugga di mano. E in questo caso i margini di compromesso ci sono tutti.

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