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Questo articolo è stato pubblicato il 25 marzo 2012 alle ore 15:37.
L'ultima modifica è del 25 marzo 2012 alle ore 15:37.
Nel molto parlare che c'è stato intorno alle cosiddette liberalizzazioni, un tema specifico avrebbe meritato a mio avviso attenzione più seria e profonda: quello del giorno festivo settimanale, la nostra domenica. Se il renderlo di fatto opzionale entrasse nella mentalità comune, se sotto la spinta della crisi la febbre del profitto dovesse contagiarci al punto da smarrire il senso e il valore di quel giorno, a perdere saremmo tutti. Per capire perché, vorrei partire da un dato singolare della concezione biblica: la santità del tempo. Nel racconto della creazione, fra le opere dei sei giorni, l'unica consacrata dal Santo è il sabato: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che aveva fatto creando» (Genesi 2,3).
Nel giardino delle origini la santità viene attribuita al tempo, e propriamente a quel tempo del riposo e della festa, che il Creatore ha concesso a se stesso, perché la creatura fatta a sua immagine potesse imitarlo. Come scrive un geniale pensatore ebreo, Abraham Heschel, «assistere all'eterna meraviglia della creazione del mondo significa sentire in ciò che è dato la presenza del Donatore, comprendere che la sorgente del tempo è l'eternità, che il segreto dell'essere è l'eterno che è nel tempo» (Il Sabato, Rusconi 1987, 155): e a ricordarcelo è il settimo giorno, quello del riposo e della festa.
Si delineano così sin dalle origini del racconto biblico due diversi "sentimenti del tempo": da una parte c'è il tempo pesante, dall'altra il tempo lieve, quello della gratuità e dell'amore. Pesante è il tempo quantificato, il mero succedersi cronologico degli istanti legati allo spazio (il greco "krónos"), il tempo degli affari e degli affanni, quel tempo "che sembra non passare mai" (dal lavoro usurante, alla predica soporifera, dal mutismo imbarazzante, alla lezione o alla conversazione noiose...). Dall'altra, c'è il tempo qualificato, l'ora della decisione d'amore e dell'accoglienza del dono (il "kairós", nel greco del Nuovo Testamento), quel sentimento del tempo che trasforma l'esteriorità dello spazio in interiorità della vita, la pesantezza dell'istante cronologico nel tempo lieve della bellezza e dell'amore, dell'arte e della preghiera, anticipo nell'"oggi" dell'eternità: «Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza!» (2 Corinzi 6,2). Questo tempo qualificato - percepibile da chiunque abbia esperienza d'amore - è pregno dello stupore davanti al dono sempre nuovo d'esistere e all'amore fontale da cui esso proviene: è per eccellenza il tempo della "festa", del giorno che di settimana in settimana ci fa pregustare nel rendimento di grazie l'incontro con la bellezza futura, che il credente sa legata alla promessa di Dio e che ognuno può intuire come mistero del mondo.
Fra tutte le creature solo l'uomo è capace di celebrare la festa, di santificare cioè la continuità dello spazio interrompendola dal di dentro con l'esperienza della levità del tempo: solo l'essere umano può decidersi per l'eterno in un movimento di trascendenza e di offerta, e in tal modo aprirsi liberamente alla gratuità dell'amore. Chi santifica la festa "ha tempo per Dio": e così il passare dei giorni è trasfigurato dallo splendore dell'eternità. La gratuità vissuta nella festa, celebrata per rendere grazie all'Eterno, fa uno con l'amore, con la passione per la verità eterna, con la coscienza di un destino che vinca il dolore e la morte. È il sentimento del tempo come memoria e come attesa, di cui dà testimonianza l'imperativo "non dimenticare", caro alla tradizione ebraica; è il tempo come grazia, che la fede cristiana vede collegato alla resurrezione di Cristo, cui solo corrisponde la grata letizia del cuore.
Il tempo "lieve" è però necessario a tutti, anche a chi non si riconosca debitore di un dono dall'alto: il giorno festivo educa alla gratuità e dispone chiunque lo scelga a vivere i giorni feriali col cuore della festa. «Lungo tutto l'arco della settimana - scrive ancora Heschel - siamo sollecitati a santificare la nostra vita impiegando le ore dello spazio. Nel giorno del Sabato ci è dato di partecipare alla santità che è nel cuore del tempo. Anche quando l'anima è indurita, anche quando dalla nostra gola rinsecchita non esce alcuna preghiera, il riposo pulito e silenzioso del Sabato ci conduce a un regno di infinita pace, o alla fonte di consapevolezza di ciò che significa l'eternità... L'eternità esprime un giorno» (163).
La domenica, poi, l'"ottavo giorno" primo dopo il settimo, segnato per il cristiano dalla potenza del Risorto, sarà per chi crede in Lui tempo di levità e di bellezza, irruzione trasfigurante dell'eternità nei giorni. Di questa rigenerazione del tempo abbiamo bisogno tutti e sempre di nuovo. Perciò, dove la coscienza del valore della festa settimanale andasse perduta, il rischio sarebbe la disumanizzazione della società: chi ha a cuore la dignità dell'essere e del volerci umani, sentirà l'urgenza di tutelare la festa settimanale come spazio collettivo e personale della libertà, della creatività spirituale e dell'amore.
La posta in gioco riguarda ognuno di noi, perché tocca l'autenticità del vivere e il nostro futuro di creature libere, fatte non per restare schiave della pesantezza di un tempo senza dono, ma per vivere la libertà liberante del tempo lieve dell'amore gratuito e della festa, il solo capace di illuminare dal di dentro le opere e i giorni.
* Arcivescovo di Chieti-Vasto
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