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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2012 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 29 marzo 2012 alle ore 08:55.

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In vent'anni, tra il 1990 e il 2010, la quota delle economie avanzate nel commercio mondiale è crollata dal 75% al 55%. Nel 2011, per il ventesimo anno consecutivo, la crescita dell'export degli emergenti ha surclassato quella dei Paesi sviluppati. Di questo passo Cina e India, che oggi rappresentano l'11%, potrebbero in pochi anni più che raddoppiare il loro peso nell'economia mondiale.

Proiezioni dell'Fmi dicono che già nel 2010 il Pil pro capite di Singapore ha abbondantemente battuto quello della Gran Bretagna. Che nel 2015, per produzione di ricchezza nazionale, la Corea del Sud supererà l'Italia. E che l'anno dopo o giù di lì la Cina potrebbe diventare la più grande economia del mondo. Non si sa se queste previsioni si avvereranno fino in fondo né se il travolgente sviluppo dell'Asia proseguirà senza strappi o incidenti di percorso. Di sicuro, tra l'effervescenza del Pacifico e il torpore continuato della crescita nella vecchia Europa, ci sono sinergie possibili, quasi obbligate: il sogno cinese di sempre, di cui molti europei continuano a diffidare.

Con l'Italia in recessione, costretta dall'alto debito nella camicia di forza del rigore senza margini di manovra per rilanciare l'economia, la missione di Mario Monti in Asia appare per molti aspetti la scommessa giusta al momento giusto. Tanto più dopo che, senza attendere il suo arrivo a Pechino, il presidente Hu Jintao ha esortato imprenditori e autorità cinesi a investire in Italia. Recenti sondaggi dicono che la crisi dell'euro ha reso il mercato unico e le sue perle, industriali e non, ancora più attraenti per il business asiatico che, nei prossimi 12 mesi, prevede di dirigere il grosso degli investimenti (45%) in acquisizioni strategiche in Europa. Contro il 14% in Medio Oriente e il 7% nel Nordamerica.

Nell'Unione europea finora non abbiamo brillato rispetto ai partner né per capacità di penetrazione sul mercato cinese né come calamita dei loro capitali. Solo il 7% del nostro export prende la strada di Pechino contro il 48% della Germania. Siamo il quarto importatore Ue (10% del totale), con il terzo maggior deficit negli scambi dopo Olanda e Gran Bretagna nei primi 10 mesi del 2011. Sul fronte degli investimenti, però, siamo la cenerentola d'Europa. Per esposizione sul mercato cinese l'Italia è al quinto posto, con 1.089 milioni di euro nel 2010, neanche troppo lontana dai 1.618 milioni della Germania, in testa alla scala Ue. Gli investimenti cinesi in Italia invece sono inesistenti: nel 2010 sono stati negativi per 20 milioni di euro contro flussi per 335 milioni in Germania, 190 in Olanda, 111 in Belgio. Francia ferma a 25, Gran Bretagna a 10.

Sulla carta, dunque, per la seconda economia manifatturiera d'Europa c'è ampio spazio per risalire la china. Meglio però usare il condizionale. Non solo perché finora il sistema-Paese non ha saputo sfruttare a fondo opportunità e promesse della globalizzazione. Ma anche e soprattutto perché troppo spesso il sistema-Paese è assente all'estero. E quando mostra il suo biglietto da visita agli investitori stranieri, invece di attirarli, tende a scoraggiarli quando non a respingerli. Il caso di British Gas e della sciagurata storia del rigassificatore di Brindisi è cronaca recentissima. Ma si potrebbe ricordare quella di At&t che nel 2007 voleva comprare Telecom Italia ma fu bocciata dal Governo: da allora pare preferisca fare affari in Spagna, dove sarebbe presenza gradita.

Ci si potrebbe chiedere come mai Warner Bros, invece di investire a Cinecittà dove pure ha lavorato molto in passato, abbia preferito migrare da tempo a Londra, dove sabato inaugurerà ufficialmente in una vecchia fabbrica Rolls Royce la Hollywood europea. Burocrazia soffocante, leggi e regolamenti complessi e incomprensibili, pubblica amministrazione inefficiente e contraddittoria nelle decisioni, giustizia dai tempi eterni che non si conciliano con quelli del business, fisco gravoso e scarso di incentivi agli investimenti, infrastrutture scadenti, illegalità diffusa.

Malanni tutti arcinoti. Senza riforme rapide e coraggiose sarà molto difficile passare dagli annunci gratificanti ai fatti concreti, in breve richiamare flussi consistenti di investimenti esteri in Italia. Da qualsiasi parte provengano. Certo, con quelli cinesi la partita potrebbe per certi aspetti rivelarsi meno complicata perché di gioielli del lusso, dell'artigianato e della tecnologia che fanno gola ne abbiamo molti. Nell'economia globale dove ormai la concorrenza più che sul prezzo si fa su qualità e materia grigia, bisogna anche riuscire ad evitare le trappole multiformi della pirateria.

È vero che oggi il "made in China" è fatto in buona parte di "made in Europe" visto che il contenuto delle importazioni nell'export viaggia in media sul 40% contro il 20% di 20 anni fa. Ma è altrettanto vero che l'Italia di Monti ha bisogno dell'Europa per muoversi meglio su un terreno vischioso. Non il protezionismo alla Sarkozy del "Buy European Act", ma reciprocità nell'apertura dei mercati e tutela della proprietà intellettuale possono diventare le chiavi di un dialogo equilibrato e proficuo per tutti. Per la Cina come per l'Europa e l'Italia alla disperata ricerca di ossigeno per tornare a crescere.

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