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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2012 alle ore 08:16.
L'ultima modifica è del 29 marzo 2012 alle ore 08:57.

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Quando la Libia avviò la mini-scalata a UniCredit nessuno immaginava che di lì a poco sarebbe scoppiata una guerra che avrebbe messo fine alla dittatura. L'ingresso in forze dei capitali libici in Italia era il perfezionamento di una strategia approvata dal Colonello in persona. Ed è l'ombra di Gheddafi che ancora si allunga su Piazza Affari.

La penetrazione finanziaria della Jamahiriya - che ha visto una impennata nel 2008 dopo il trattato di amicizia - era stata pensata per infilarsi (dopo l'esperienza Fiat-Lafico) nei gangli vitali del sistema finanziario nazionale, in chiave di interazione tra capitale e business. E infatti - a parte la Juventus, una divagazione su aveva influito il figlio pseudo calciatore Saadi - i capitali si sono concentrati nel tempo sulla principale banca del paese - che da tempo aveva inglobato il Banco di Roma, l'asset storico dei rapporti tra Roma e Tripoli - nel campo petrolifero con l'Eni e in quello della difesa con Finmeccanica, oltre che nelle telecomunicazioni con Retelit.

Una massa di investimenti che è ammontata via via a quasi 4 miliardi: il punto massimo fu toccato nel settembre 2010 quando fu superato il 7,5% in UniCredit (mantenuto fino all'aumento di capitale), che innescò la catena di eventi che portò tra l'altro al cambio della guardia a piazza Cordusio. Ma anche l'ingresso in Finmeccanica aveva avuto quello scopo, legato in qualche modo a rafforzare la collaborazione in campo militare e satellitare soprattuto nel controllo dei confini sud del paese specie per il controllo dei flussi di migrazione clandestina.

La guerra ha naturalmente stroncato il progetto complessivo del Colonnello ma gli ex ribelli hanno confermato di voler tenere vivva la collaborazione: il Cnt aveva garantito di non voler vendere le quote dopo lo scongelamento, per evitare sconquassi in Borsa, e questo è di fatto avvenuto. Il provvedimento di sequestro attuato ieri è un elemento nuovo che può far destare qualche preoccupazione nei circuti di Piazza Affari, specie ora che il dossier finanziario libico si stava avviando verso una normalizzazione su tutti i fronti, compresi quelli tra soci.

A Tripoli, in attesa che riaffluiscano le disponibilità in mezzo mondo perlopiù ancora bloccate o in via di sblocco, si sta formando una nuova classe dirigente che sarà preposta alla gestione delle risorse che saranno sottratte alla ricostruzione e destinate "a riserva". A decidere sarà il governo che scaturirà dalle elezioni di giugno: il governo italiano - specie dopo il viaggio del premier Monti - sta consolidando i rapporti di amicizia, ma lo stesso stanno facendo le grandi imprese.

Tra l'altro in Italia non ci sono solo partecipazioni azionarie di peso: risulta che nei forzieri di UniCredit ci siamo almeno 3 miliardi di depositi liquidi, e 1,5 in quelli dell'Ubae, la banca italo-libica uscita di recente dalla gestione commissariale post congelamento che non è stata interessata dal provvedimento di ieri dal momento che il 67,5% è detenuto dalla Lybian Foreign bank. Questi fondi non sono stati prelevati, come sembrava probabile vista la necessità di risorse: il loro prelevamento va avanti con il contagocce, e solo per motivi specifici di carattere umanitario e assistenziale. L'incertezza che aleggia in ambienti bancari è che si possa presentare allo sportello un emissario senza poteri di firma: in sostanza si attendono le elezioni e la formazione di una stabile classe dirigente.

Intanto da Tripoli arriva una presa di posizione netta: «Lia e Lafico non sono dei Gheddafi ma dello Stato - dice l'ambasciatore in Italia Hafed Gaddur - se invece sono una sorta di cauzione per proteggere le nostre proprietà allora va bene, ma vanno subito sbloccate e va trovata una soluzione. Quello che contestiamo è la decisione dell'Aja, non il provvedimento della Guardia di Finanza».

Ma chi comanda la finanza libica, che investirà in Italia? In testa ci sono il nuovo governatore della banca centrale, Al-Sediq Alkabir, e il ministro delle Finanze, Hassan Mukhtar Zeghlam. Alla Lia, il fondo sovrano, c'è ancora il vecchio presidente Muhammad Layas (c'era anche con Gheddafi, ma rappresenta la memoria storica, ancora necessaria), ma si è insediato un comitato di gestione composto da Ali Abu Sedra (un avvocato molto stimato che agisce nel Golfo e che risulta essere il coordinatore di questo gruppo), Khled Khajiji e Mohesen Dreja.

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