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Questo articolo è stato pubblicato il 03 aprile 2012 alle ore 08:10.

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La disoccupazione aumentava anche quando l'occupazione, nella prima parte del 2011, stava crescendo. Dall'estate scorsa, con il peggioramento della congiuntura e il lavoro in leggera flessione, è aumentata a ritmi ancor più sostenuti. In un anno la disoccupazione è salita di 335mila unità mentre gli inattivi sono cresciuti di 340 mila : un perfetto travaso dalla inattività alla disoccupazione. Di questo aumento di 'offerta ' di lavoro la componente femminile ha fatto la parte del leone: le donne attive nel mercato del lavoro sono 240 mila in più.

È il classico effetto del lavoratore 'addizionale'. Quando i redditi familiari sono in sofferenza, a causa di perdita di posto di lavoro o di riduzione del salario reale da parte dei cosiddetti lavoratori primari - i maschi adulti - gli altri componenti della famiglia, sino a quel momento inattivi, decidono di entrare sul mercato in cerca di lavoro, per portare a casa un reddito aggiuntivo (addizionale appunto) che possa risollevare i magri bilanci familiari. Dopodiché non è detto che il lavoro si trovi: qualcuno ci riesce, ma molti no. Delle 250 mila donne in più che hanno deciso di entrare nel mercato, poco meno di 70 mila hanno trovato lavoro. Il resto lo sta cercando.

Molte di queste sono giovani. Su questo versante ogni mese che passa si batte un record: la disoccupazione giovanile si avvicina al 32 per cento! La probabilità per un giovane di rimanere disoccupato è almeno quattro volte maggiore di quella di un adulto. Non c'è Paese sviluppato che conosca un grado di dualismo di questa portata. Pesa la crisi economica nella quale siamo ripiombati. Senza crescita non ci sono posti di lavoro aggiuntivi.

Pesa anche un funzionamento del mercato del lavoro che penalizza troppo i giovani. In questo campo gli obiettivi di maggiore adattabilità e di maggiore 'occupabilità' sono ancora lontani. La riforma, che si spera arrivi presto, contiene importanti modifiche sul terreno degli ammortizzatori e della flessibilità. Un po' meno di flessibilità in entrata e un po' più di flessibilità in uscita, nella linea suggerita da tempo dagli organismi internazionali, può dare fiato ad un mercato del lavoro asfittico e rimediare almeno in parte a quella eccessiva divaricazione nelle tutele che ha caratterizzato in questi ultimi anni i vari tipi di rapporti di lavoro di cui i giovani hanno fruito. Rimane molto da fare sul tema della 'occupabilità'. Su questo terreno abbiamo accumulato ritardi enormi. Innanzitutto nel campo della scuola e della formazione. L'apprendimento dei giovani a scuola è scadente. Inoltre i nostri giovani raramente riescono a combinare lo studio con qualche esperienza di lavoro. In questi settori siamo molto indietro nelle classifiche calcolate dall'OCSE per i Paesi sviluppati. Abbiamo poi una attività di orientamento nettamente insufficiente, con molti giovani che scelgono la scuola e l'università sbagliate. La nostra offerta formativa è poi lacunosa: non abbiamo, come molti altri Paesi invece hanno - dopo la suola secondaria - un percorso parallelo a quello universitario, di tipo tecnico-professionale. Infine la transizione dalla scuola al lavoro è un percorso accidentato, con periodi brevi di occupazione alternati a frequenti periodi di disoccupazione e inattività. Scarsissimo è l'aiuto che i nostri giovani ricevono, in questa difficile e importante fase della loro vita, dai servizi all'impiego.

La riforma vuole riformare questi ultimi. Speriamo sia la volta buona e anche la prima delle riforme dirette ad investire di più nel capitale umano dei giovani, con servizi formativi, di orientamento e di accompagnamento che siano all'altezza di quelli che gli altri Paesi sviluppati hanno messo in campo da tempo. Paesi con tassi di disoccupazione giovanile che sono la metà dei nostri.

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