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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2012 alle ore 08:36.
L'ultima modifica è del 10 aprile 2012 alle ore 09:53.

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In tempi in cui il dibattito politico è giustamente incentrato su austerity e lotta all'evasione, può apparire paradossale ricordare che lo Stato è il primo a essere in difetto. I suoi debiti scaduti nei confronti delle imprese ammontano, infatti, ad oltre il 4% del Pil, pari a quasi 70 miliardi di euro.
Nelle ultime settimane si sono moltiplicati casi d'imprenditori che mettono fine alla propria vita perché non sono più in grado assicurare l'esistenza alla propria impresa. Anche a causa dei ritardi di pagamento della Pubblica amministrazione.

È inaccettabile. Qualsiasi politica seria per uscire dalla crisi e rilanciare la competitività delle nostre imprese deve partire, prima di tutto, proprio dall'eliminazione di questi ritardi. Non vedo differenze tra l'obbligo, non solo giuridico ma anche morale, di pagare le tasse e quello della Pubblica amministrazione di onorare puntualmente i propri debiti. Fin dall'avvio del mio mandato mi sono battuto per accelerare l'attuazione di un quadro di norme europeo che metta definitivamente fine a questo fenomeno. La direttiva Ue sui ritardi di pagamento, approvata un anno fa, prevede pagamenti entro 30 giorni, con limitate eccezione fino a 60, pena interessi di mora dell'8%. Gli Stati membri devono attuarla in maniera corretta e completa entro il termine ultimo di marzo 2013 per evitare procedure d'infrazione da parte della Commissione.

Nel mezzo della crisi che vuol dire prima di tutto restrizione del credito, anche 12 mesi possono risultare fatali per molte Pmi. Per questo lo scorso novembre ho scritto a tutti i ministri competenti dei 27 chiedendo di anticipare l'attuazione della direttiva. Molti Stati hanno aderito alla richiesta. Pagare gli arretrati significa liberare oltre 180 miliardi di crediti verso lo Stato a livello Ue. Di questi, quasi la metà nella sola Italia, cui spetta il non invidiabile primato negativo di questo malcostume. In un periodo in cui oltre un'impresa su tre non riesce ad avere il credito sperato, questa somma può costituire un formidabile volano per far ripartire investimenti e nuove assunzioni, specie per le Pmi che soffrono più di altri la carenza di capitali. Dai miei colloqui con il ministro Corrado Passera è emersa piena sintonia su questo punto; e sono certo che il Governo stia esplorando ogni possibile soluzione, anche in collaborazione con il sistema bancario.

Ma occorre far presto. Condivido in pieno l'allarme lanciato da Confindustria al Senato, in Commissione Industria. I prestiti alle imprese in Italia si sono ridotti rispettivamente dello 0,1%, 1% e 2% tra novembre e gennaio, equivalente a 60 miliardi in meno in soli tre mesi. A questa contrazione si aggiunge l'aumento del costo del credito salito di un punto da giugno 2011 fino a superare il 4% all'inizio dell'anno. Non possiamo più chiedere alle nostre imprese di navigare tra Scilla e Cariddi: da un lato restrizione e maggiore onere del credito, dall'altro lo Stato che non paga. Per ottenere un pagamento dalla Pubbliche amministrazione le aziende italiane hanno atteso 180 giorni nel 2011, contro i 128 nel 2009. Mentre nel resto d'Europa il trend è invertito per cui, ad esempio, in Francia si è scesi da 70 a 64 giorni e in Germania da 40 a 35.

È inutile continuare a nascondersi dietro a un dito. Questi debiti esistono e non è mortificando le imprese che si può risolvere il problema dei conti italiani. Si rischia, invece, di ottenere l'effetto opposto. Far mancare questi capitali, adesso, alle Pmi, significa aumentarne la mortalità, costringerle a licenziare o, comunque, a non crescere. Con danno per l'economia italiana e rischio di aggravare la recessione. Senza una vera strategia per la crescita l'Italia non ripartirà. Il Governo Monti ha imboccato la strada giusta con riforme strutturali che rafforzano la competitività delle imprese. Ora si tratta di risolvere rapidamente il problema dell'accesso ai capitali.

Vicepresidente della Commissione Ue

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