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Questo articolo è stato pubblicato il 11 aprile 2012 alle ore 08:32.
L'ultima modifica è del 11 aprile 2012 alle ore 08:32.
L'Europa non c'è. La risalita degli spread delle ultime settimane manda un segnale molto preciso: i mercati finanziari cercano l'Europa, ma non la trovano. Anche in questa occasione, più che di speculazione dovremmo parlare di precauzione, perché non c'è neppure bisogno di vendere molti titoli pubblici; basta non comprarli. D'altra parte, mai come in questo caso il rimedio è peggiore del male: all'aumentare dei tassi di interesse per i Paesi più deboli, i loro problemi si aggravano e alla fine la divergenza tra i Paesi europei aumenta. L'eurozona è in recessione, ma a fine anno il divario tra la periferia (Italia compresa) e il centro (a cominciare dalla Germania) si starà ancora ampliando.
È questa - come ormai sappiamo da anni - la sindrome di cui soffre l'Unione monetaria europea: nata per favorire l'integrazione e quindi la convergenza, è stata progettata male e gestita peggio, finendo col favorire la divergenza, fino a far ritenere possibile la disintegrazione.
L'errore è dipeso principalmente dal difetto (tipicamente tedesco) di credere che la stabilità bastasse ad assicurare la crescita: una Bce ispirata alla Bundesbank avrebbe garantito che crescesse tutta l'Europa... come se fosse stata la Germania. Un errore che gli studiosi della crescita non avrebbero mai commesso: basta rileggersi Joseph Schumpeter per saperlo.
Eppure è questo un errore ancora oggi molto comune, se analizziamo con cura molte delle riforme cosiddette strutturali che vengono auspicate per favorire la crescita, mentre si taglia la spesa pubblica (anche quella utile) e soprattutto quando si aumentano le tasse (anche quelle che poi inducono le imprese ad investire altrove). Riforme a volte necessarie per far funzionare meglio un'economia di mercato, ma che non necessariamente aumentano il sentiero di crescita, cioè anche il potenziale aumento nel tempo del reddito di un Paese.
Perfino nei testi ufficiali che escono da Bruxelles a volte si confonde il livello (più o meno alto) del reddito nazionale di un Paese con il suo (più o meno grande) tasso di crescita; e così non si precisa che la crescita - in presenza di una unione monetaria - è un bene comune, cui devono essere indirizzati gli sforzi di tutti e di ciascuno.
I mercati finanziari sono tornati in "crisi di astinenza" dopo l'intervento della Bce del 29 febbraio (bisognerà attendere un altro anno bisestile, per il prossimo?) e hanno paura di un 2012 in cui i Paesi che già hanno difficili problemi li vedono tutti aggravarsi, nel complice silenzio di Bruxelles. D'altra parte, la stessa iniziativa di 12 primi ministri europei (Mario Monti compreso) di metà febbraio, che provava a stimolare la preparazione di un "piano per la crescita in Europa", è subito caduta nel dimenticatoio.
Quanto a lungo dovremo ancora subire la punizione di tassi di interesse più alti del necessario, per dimostrare così che siamo robusti abbastanza da poter sopportare una moneta comune che non ci dà alcun beneficio? La domanda sembra a prima vista retorica, ma a ben guardare è proprio quanto ci stanno chiedendo i mercati finanziari, a nome delle tante persone di buon senso che hanno capito che questa Unione (prima e più ancora di questi debiti) non è a lungo sostenibile.
Una Unione che non condivide la crescita, ma che resta in perenne "stato stazionario", è infatti percepita dai suoi cittadini come un gioco a somma zero dove inesorabilmente se qualcuno cresce è "a spese" di qualcun altro; dove continuamente ci sono vincitori e vinti. Insomma, una Unione in cui conviene essere stati, ma non conviene più restare in futuro.
È per questo - per contrastare le spinte disgregatrici impersonificate dagli spread tornati minacciosi - che è urgente che l'Europa dia un segnale forte di presenza e di impegno per la crescita comune.
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